L'algoritmo Di Maio
Perché il candidato premier del M5s è la sommatoria allucinata dei nostri peggiori incubi politici e tic culturali, dell’Italia anticasta e moralista, del cumulo più formidabile di teorie antiscientifiche e complottiste degli ultimi anni. Indagine sulle maschere del grillismo
La signora Paola ha poco più di settant’anni, abita nel centro storico di Roma, vicino la sezione “Campitelli” del vecchio Pci, poi circolo Pd di via dei Giubbonari, poi chiusa per sfratto poco più di un anno fa. La signora Paola ha sempre votato Partito comunista, poi a malincuore Ds, Ulivo, qualche lista civica, il Pd di Veltroni, giammai quello di Renzi. Oggi non ha dubbi: “Voto Di Maio, anzi è un peccato che abbiano presentato Raggi come sindaco di Roma, lui l’avrei votato”. Perché? “Perché è un bravo ragazzo, uno serio, pulito, si vede subito”. In effetti è così. Tutti in classe avevamo un secchione, un futuro criminale, un rappresentante d’istituto e Luigi Di Maio. Di Maio non lo notavi, non si metteva né ai primi banchi né agli ultimi, non prendeva brutti voti ma neanche ottimi, molto ossequioso con i professori, se copiava era preso dai sensi di colpa, all’occorrenza ti riparava il computer, niente calcio, un solo amico fidato che non eri tu. Un “bravo ragazzo”. Uno che faresti fatica a ricordare se nel frattempo non fosse diventato il candidato leader del primo partito italiano, già vicepresidente della Camera.
Non farsi notare è un’arte e Di Maio è stato programmato per questo. Un riuscitissimo, puro, opposto di Matteo Renzi.
Luigi Di Maio visto da Vincino
Di sicuro, un prodotto con un più alto tasso di identificazione nazionale e generazionale: disoccupato, fuoricorso, steward allo stadio, pubblicista, una vita interinale, un “webmaster” prestato all’antipolitica. Di Maio non promette nessuna “rottamazione” pop con l’I-Pad e Baricco, non ha il mito della Silicon Valley, al posto delle maniche di camicia arrotolate – indubitabile segno di “fast thinking” – sfoggia cravatte da matrimonio in provincia, modi garbati, colletti inamidati, addosso sempre un’aria vagamente stantia, anche quando dice “voglio un’Italia smart nation”. Perché Di Maio non propone una rincorsa forsennata per salire sul treno della modernità ma una lotta-alla-casta che sprofonda nell’italianità più arcaica, “folk”, vera, quindi invisibile. Per esempio, nessuno si è accorto che Di Maio è l’unico tra i leader in gara a non aver scritto un libro. Già questo lo proietta in una prossimità con l’elettore irraggiungibile per gli altri candidati. Renzi ne ha scritti quattro, Grasso almeno due, Berlusconi tantissimi, Meloni e Salvini hanno pubblicato, “Secondo Matteo. Follia e coraggio per cambiare il paese” e “Noi Crediamo. Viaggio nella meglio gioventù d’Italia” (Di Battista con due libri in meno di un anno gioca in un altro campionato). Di Maio no. Di Maio non ne ha bisogno. Perché Di Maio è lì per dirci che se lui ce la fa, allora questa cosa della democrazia diretta, del potere nelle mani dei cittadini magari funziona davvero. D’altro canto Di Maio non esiste. Come proveremo a dimostrare, Di Maio è solo la sommatoria allucinata dei nostri peggiori incubi politici e tic culturali, una proiezione dell’inconscio italiano, un algoritmo, un replicante, un androide populista. Non è facile trovare immagini private di Di Maio. In rete c’è soltanto una sfilza di foto che ritraggono questo giovanotto dalla carnagione olivastra vestito a festa, in perenne completo blu da motivatore aziendale della Vorwerk Folletto. Di Maio a una convention, Di Maio a Harvard, Di Maio al mercato che stringe mani, Di Maio a Cernobbio, Di Maio ai talk-show, Di Maio al Forum Ambrosetti. Al massimo, si trovano immagini delle sue uscite ufficiali con l’ex fidanzata Silvia Virgulti (coach tv scelta da Casaleggio per addestrare alla comunicazione i parlamentari dell’M5s) che ancora di più fanno assomigliare la vita di Di Maio a un Truman-show gestito dalla Casaleggio Associati Srl. Abbiamo visto Salvini sbracato al mare, Meloni incinta, Grasso in piscina, Renzi al supermercato, Berlusconi vabbè; ma le uniche foto in relax di Di Maio sono insieme a Di Battista, dunque elettorali, palesemente allestite, messe in scena, come quella scattata sott’acqua, a Capo D’Orlando, con lui e Dibba che fanno il segno della vittoria.
immagine tratta dal profilo Instagram di Luigi Di Maio
Non farsi notare è un’arte e Di Maio è stato programmato per questo. Un riuscitissimo, puro, opposto di Matteo Renzi
E’ l’unico tra i leader in gara a non aver scritto un libro. Già questo lo proietta in una prossimità con l’elettore irraggiungibile per gli altri
Chi è Luigi Di Maio? Come recitava la celebre battuta di Grillo sulla “scatola nera” nella gobba di Andreotti, bisognerebbe aprire la scatola nera di Luigi Di Maio e capire come è stato assemblato. Se oggi si vuole smontare il discorso di Grillo si deve smontare l’operazione Di Maio, perché lungi dall’essere sintomo di normalizzazione, promessa di stabilità o passaggio all’età adulta del Movimento, la svolta moderata a trazione Di Maio è la più minacciosa tra le variopinte minacce che si stagliano all’orizzonte della crisi italiana. Non democristiano solo per ragioni di età, Di Maio è il prodotto di un mosaico impazzito, un montaggio di deliri italiani familiari e antichissimi, una creatura che riaffiora dagli abissi della nostra politica, Di Maio come Frankenstein, messo su con gli avanzi dell’Italia dei movimenti e della società civile, delle monetine al Raphael e dei girotondi, del popolo viola e del popolo dei fax, dei forconi e del pool di Milano, dei territori, delle trivelle, del veganesimo, dei beni comuni, del cumulo più formidabile di teorie antiscientifiche, complottistiche, antieconomiche, delle “Iene”, degli incontri sulla legalità, dei tassisti anti Uber, dei talk-show di La7, della decrescita felice e dell’ancora più entusiasta distruzione del pil, no Vax, no Tav, no Global, no Bilderberg, no Bolkestein, no euro, oppure sì, facciamo un referendum su Facebook.
Dietro il completo di Di Maio c’è la nostra allegra incoscienza camuffata da seriosità, c’è l’euforica sommatoria delle minoranze rumorose che hanno occupato la scena dopo il crollo dei partiti, c’è il rilancio di mitologie intramontabili: le virtù incontestabili del “popolo”, il rovesciamento del “sistema”, l’autogestione, il pauperismo, un’idea negativa del potere come colpa, vergogna, “grande disegno” sempre oscuro, sempre oppressivo. Così come la Francia ha lavorato anni per allevare, costruire, lanciare nel firmamento politico nazionale e europeo uno come Macron, l’Italia lavora da anni per avere uno come Di Maio. Perché liberare la politica dai partiti resta la nostra grande chimera. C’è la versione “upper class”, laica e libertaria, delle battaglie di Pannella “contro la partitocrazia”, c’è quella giustizialista “dal basso”, con i cittadini, i territori, Davigo, con “Giggino o’ presidente”.
Di Maio, il M5s e il mito della purezza
“La casta” di Rizzo e Stella esce in libreria il 2 maggio del 2007, l’8 settembre dello stesso anno Grillo celebra a Bologna il “Vaffa Day”. I due eventi raccolgono – in modi va da sé diversi ma complementari – quindici anni di malessere, insofferenza, scollamento dai partiti (non dalla politica, come erroneamente pensava qualcuno); quindici anni di trasformazione degli avvisi di garanzia in condanne che con l’arrivo dei social diventano sentenze (ne farà le spese anche il sindaco M5S di Livorno, Filippo Nogarin, che per rifarsi davanti ai suoi elettori vieterà di intitolare una rotonda a Carlo Azeglio Ciampi, colpevole dell’ingresso dell’Italia nell’euro ma anche di aver “reintrodotto la parata militare”, come fece notare un consigliere comunale). Più i partiti sono sporchi, corrotti, “collusi”, più la società civile diventa negli anni dell’adolescenza del piccolo Di Maio l’unica depositaria del mito della purezza. Anni in cui l’implacabile logica della deresponsabilizzazione italiana dà il suo meglio, poi si sa: più si è tra gli “ultimi” più si è tra i “giusti”. Con la sua faccia “seria, onesta e pulita”, Di Maio non è soltanto chiamato a guidare un processo di progressiva istituzionalizzazione del Movimento dall’antipolitica alla politica, deve soprattutto prestare il volto al mito della purezza. Anche dentro questo mito della purezza c’è un po’ di tutto: dalle “Lettere luterane” di Pasolini alle denunce di “Striscia la notizia”, dall’omeopatia all’olio di colza, dalla “questione morale” al “Cantico delle creature” riassunto nei sandali sfoggiati in Senato dal grillino Claudio Martelli (“abbiamo scelto appositamente la data di san Francesco per la creazione del Movimento”, diceva Grillo, “politica senza soldi, rispetto degli animali e dell’ambiente”, volendo estendere il tema c’è anche “L’Osteria Francescana” di Bottura col suo “bollito non bollito”, come il “non-statuto”, il “non-partito”, insomma puro Zeitgeist). Però la ferocia della purezza si regge su un punto preciso: il grande sdegno per i partiti. Sarà stato sufficiente metterci un “non” davanti? E da dove vengono questi mancati bonifici? “Per il Movimento è un momento molto difficile”, dice Di Maio, “forse il più difficile. Dobbiamo essere uniti e mettere in chiaro che non è vero che siamo tutti eguali. Da noi chi sbaglia non viene fatto ministro: viene buttato fuori”.
Luigi Di Maio (foto LaPresse)
“Fare il poliziotto” era il “sogno nel cassetto” di Di Maio, scrive l’ex compagno di scuola, Paolo Picone, nell’unica biografia sin qui pubblicata (“Di Maio chi?”). “Viene iscritto alla scuola Mazzini, uno dei migliori istituti di Pomigliano d’Arco”, prosegue Picone, “e continua il suo brillante percorso di studi anche nei tre anni di medie. Frequenta la classe sperimentale di latino e gli viene affidato forse il suo primo compito di grande responsabilità: addetto al fondo cassa della classe”. Un piccolo Mozart dei rimborsi. Per questo Di Maio oggi non ci sta. Per difendersi dalle accuse di “rimborsopoli” – neologismo che dà il senso della mestizia in cui siamo sprofondati – si affida a un lungo, tortuoso post su Facebook, cita Ermal Meta e Fabrizio Moro trionfanti a Sanremo (“non mi avete fatto niente”), se la prende con “Le Iene”, poi torna indietro. La sfida tra l’M5s e “Le Iene” è un regolamento di conti, anzi uno scisma. L’inviato Luca Romano, autore del servizio sui rimborsi, lo dice in modo chiaro, netto, perentorio: “L’antipolitica l’abbiamo introdotta noi delle Iene, all’inizio della legislatura, quando realizzavo i servizi fuori dalla Camera e dal Senato, molti parlamentari del Movimento 5 stelle venivano a farsi le foto con me, perché dicevano che erano cresciuti con Le Iene”. Lo diceva anche Di Maio quando entrò a Palazzo Chigi, “all’improvviso mi sono ritrovato su uno scranno più alto di tutti quei politici che avevo visto in Tv per vent’anni”. Non resta che ricucire lo strappo: “Siamo di fronte a un tradimento dei nostri principi e della fiducia dei nostri iscritti, per questo saranno cacciati dal Movimento”. Ripristinare subito la purezza, mostrare i bonifici. Di Maio ringrazia “Le Iene” per il servizio reso alla causa della purezza: “E’ stato un bene”. “Le Iene”, signori, sono il nostro “The Post”, perciò ci meritiamo tutto.
Non è certo qui che si batte il grillismo. Casomai andrebbero spiegati con forza i disastri di una cultura che mette al primo posto la restituzione del denaro, non la produzione del reddito. Ma sono dettagli. Perché qui si lavora a una visione collettiva che subordina desideri, speranze, bonifici al realizzarsi di una progettualità condivisa. Perché c’è un “noi” e un “loro”, una piazza e un Palazzo, la gente e i potenti, i puri e i corrotti. La purezza è un sentimento totale, definitivo. Un progetto di pedagogia sociale, come quello del vecchio Pci, linea di condotta, disciplina di partito, estratti conto pubblicati su Instagram.
La buona scuola
Il padre, Antonio Di Maio, alle spalle una lunga militanza nel Movimento Sociale di Almirante, avrebbe preferito che il figlio finisse l’università: “Gli dicevo: se tu dedicassi allo studio un quinto del tempo che dedichi alla politica, invece niente, sempre stato matto per la politica”. Racconta Di Maio Luigi che la folgorazione fu innescata da Antonio Cassese. Se state pensando al celebre giurista, presidente della Commissione Onu sui crimini in Darfur, tradite subito la vostra simpatia per le élite. Qui si parla di Antonio Cassese, professore di Storia e Filosofia al Liceo Ginnasio “Vittorio Imbriani” di Pomigliano d’Arco, definito da Di Maio un “comunista-comunista-comunista”. Ma siccome non si vorrà vedere in questo l’ingarbugliata trama rossa, il tenebroso disegno politico di un’educazione tutta in mano alle “sinistre” si dirà che c’era anche Rosa Manna, la professoressa di italiano, che ricorda un Di Maio “con i capelli sempre ben curati, per nulla stravagante nel look, un acuto osservatore, con una evidente preferenza per la filosofia”. Fatto sta che un giorno Cassese lo prende da parte e gli indica la strada maestra: “Non devi pensare al rosso o al nero ma ai problemi reali”. Un appello alla creazione di una nuova identità politica “né di destra, né di sinistra” che il giovane Di Maio fisserà per sempre tra i suoi ideali, perché “nel Movimento c’è chi guarda a Berlinguer, chi alla Dc, chi ad Almirante”. Con il professore Antonio Cassese, Di Maio scrive e gira un cortometraggio sulla Resistenza a Pomigliano, legge molto Hegel, “discute dell’elogio della Democrazia di Atene”, organizza lotte e scioperi, “ma di pomeriggio”, precisa Cassese, “perché la mattina andava a scuola”.
Un protocollo intramontabile consolidato dal Sessantotto, quando si okkupava la Facoltà, poi si tornava a casa per Natale e con calma, dopo la Befana, si tornava in possesso delle aule occupate, tenute col riscaldamento acceso dallo “Stato di merda”, per riprendere tutti insieme la solita routine di autogestione, autocoscienza, lotta al sistema e alle multinazionali. Nel paese del liceo classico, la buona scuola è anche questo. Ogni progetto di ingegneria politica e sociale non può che partire da lì. Sono gli Antonio Cassese che cambieranno questa società in una società più giusta.
Fateci caso, raramente capita che un politico in Italia parli dell’importanza della sua formazione universitaria. Sempre e soltanto la scuola. “Ricordo a memoria i nomi dei miei insegnanti grazie alla scuola pubblica”, diceva Michele Emiliano da Floris, “sono loro ad avermi spiegato la bellezza della cultura italiana, sono diventato magistrato già a scuola, quando mi hanno spiegato la differenza tra bene e male”. Ha ragione. Nella scuola pubblica italiana si apprende la differenza tra bene e male. Poi all’università sarebbe il caso di problematizzarla un po’. Quando Di Maio si iscrive alla facoltà di Ingegneria capisce subito che non fa per lui, però fa in tempo a creare l’“associazione di studenti di Ingegneria Assi”, prima di passare a Giurisprudenza dove formerà l’associazione “studentigiurisprudenza.it”. “Creammo un giornale con le nostre forze”, racconta un suo ex compagno di studi immortalato nella biografia di Picone, “dopo un anno ci fu dato anche un finanziamento di cinquemila euro che rifiutammo perché non avendone necessità non ci sembrò opportuno utilizzare denaro dell’Ateneo che poteva essere impiegato diversamente”. Di Maio pensava già ai bonifici, non aveva tempo di studiare. Finisce fuoricorso, poi molla. Nel penultimo paese europeo per percentuale di laureati sul totale della popolazione può rivelarsi una scelta vincente. Ma non basta. Di Maio ha in serbo un capolavoro di acrobazia dialettica poco hegeliano, molto napoletano, probabilmente appreso dal professor Cassese: “Non ho conseguito la laurea perché sono diventato vicepresidente alla Camera a 26 anni, e mai avrei approfittato del mio ruolo per andare a fare gli esami”. Così Di Maio detta la linea di partito anche per l’affaire rimborsi. Il senatore Martelli ammette di aver sbagliato, ma solo perché “voleva figurare tra quelli che restituivano di più”, insomma solo perché preso dal demone dell’onestà. La deputata Giulia Sarti è stata tradita dall’amore per il suo fidanzato che le ha sottratto ventitremila euro riservati alle piccole imprese. Il succo del dramma è tutto qui: l’onestà è la forza cosmica, l’onestà muove ogni cosa, l’onestà ci renderà liberi ma solo quando avrà finito con noi.
Di fronte alla mancata laurea, Di Maio poteva cavarsela con un richiamo all’“università della vita”, sempre bene accolto dalle nostre parti. Avrebbe però tradito la sua faccia da bravo ragazzo. Di Maio infatti non disprezza il sapere, non si comprerebbe mai la laurea in Albania come il figlio di Bossi. Magari ce l’ha con gli “esperti” che fanno “gli interessi delle lobby”, ma non può far leva sulla libertà di cazzeggio di Grillo. Non può urlare tra gli applausi di volere alle Finanze, “una signora che ha tirato su tre figli, una signora che non ha fatto fallire la sua famiglia”, perché “queste persone sanno cos’è l’economia, non i bocconiani”. Di Maio tradisce una reverenza meridionale per il titolo di studio che lo spinge a fornire spiegazioni sempre più fantasiose, non tanto agli occhi degli elettori, che di fatto se ne fregano, quanto a quelli di mamma e papà ingiustamente privati del pezzo di carta da appendere in salotto. Non a caso, ispirato dall’atmosfera di Harvard, Di Maio dà il meglio di sé: “Io sono uno di quelli che rappresentano una forza politica che voleva avere più tempo per formarsi, per crescere, per provare a governare questo paese”, dirà rispondendo a chi gli faceva notare l’istruzione molto bassa delle persone del suo partito, “ma visto che gli esperti, quelli preparati, lo hanno ridotto in queste condizioni, non abbiamo avuto tempo per riuscire a organizzarci con lentezza. Per questo molti di noi hanno lasciato quello che facevano e hanno deciso di impegnarsi in prima persona”. Di Maio strappato dai libri per difendere il suo paese, un sacrificio sommamente deamicisiano, la chiamata alle armi, le quattro giornate di Napoli, la piccola vedetta campana. “Non volevo ma per amor di patria non posso tirarmi indietro”. Addio.
Il M5s e il ministero della Meritocrazia
Il libro che gli ha cambiato la vita è la “Storia d’Italia” di Indro Montanelli ma in questo periodo sta leggendo, “Da Socrate a Obama. Il viaggio dell’educazione”, antologia che passa in rassegna “i grandi personaggi che hanno segnato il modo di educare”, la serie Tv preferita è “Gomorra”, perché “amo Napoli”, perché “gli attori sono bravissimi”, perché “è davvero fatta bene dal punto di vista cinematografico”, l’ultima volta che è andato al cinema ha visto “quel film sui telefonini”, la passione più grande è la Ferrari, in cuffia ascolta il pianoforte “minimal” di Ludovico Einaudi, ma anche, tiene a precisare, “Spotify”. Siamo seri, come si fa a credere che uno così esista davvero? Casomai, Di Maio esiste come rappresentazione televisiva di un elettore medio dell’M5s, incravattato e improvvisamente catapultato dentro un film di Frank Capra. “Arrivai tardi alla Sala della Regina, dove si selezionavano i candidati”, racconta Di Maio, “la collega Vega Colonnese mi disse: Proponiti tu. Io la guardai e dissi di no. Ma lei non mollò: Ogni volta che uno buono non si fa avanti, c’è uno meno buono che gli fa il posto, disse”. Il discorso di Di Maio fu breve: “Mi alzai, dissi semplicemente: Non chiamerò mai più i deputati onorevoli. Fui eletto subito”. E’ la meritocrazia, bellezza. Quella cui Di Maio vuole dedicare un ministero, perché ogni cultura ha le sue emergenze e priorità, gli inglesi hanno la solitudine, noi il mancato riconoscimento del “merito” (“stiamo pensando a un ministero della Meritocrazia che finalmente permetta ai giovani e ai meno giovani meritevoli di raggiungere gli obbiettivi della loro vita”, noi ci auguriamo che nell’atrio del nuovo ministero venga incisa nel marmo la frase “Ho fatto copiare ma non ho mai copiato, non che io ricordi”, firmato Luigi Di Maio).
La scena molto Frank Capra in salsa “onestà” dell’audace Di Maio che vince il posto perché si rifiuta di chiamare “onorevoli” i deputati è il riscatto che sognano milioni di giovani freelance incazzati, soprattutto residenti al Sud, il vasto, vastissimo bacino elettorale dell’M5s, “la lista più votata dai Millenials”. Di Maio è la faccia giusta per guidare una nuova “balena bianca” che peschi a strascico tra i valorosi, sfortunati figli di un’utopia tradita, quella di una società che avremmo messo in mano a graphic designer, blogger e laureati in Scienze della comunicazione, per farci condurre nell’eden sconfinato della “società dei servizi”. Poi, si sa, qualcosa è andato storto. Le “parlamentarie” diventano così un agognato “ascensore sociale”, una spietata, radiosa variante politica di “Amici” di Maria De Filippi. Migliaia di aspiranti Luigi Di Maio che potrebbero uscire dall’anonimato, entrare in un entusiasmante percorso di alternanza “disoccupazione – Palazzo Chigi”, bonifici permettendo. Per tutti gli altri c’è il reddito di cittadinanza.
La media educación del M5s
“C’è un orientamento a non andare nei talk-show. Io lo condivido: sono solo delle fiction”, dice Di Maio nel 2013. Ma è lì che nasce il progetto politico di un candidato premier costruito come un algoritmo per gestire il ribaltamento di posizioni dell’M5s nel flusso televisivo dei talk. Verso la fine dello stesso anno, Di Maio diventa infatti uno dei tre parlamentari autorizzati a farsi intervistare in televisione, tra i primi cioè a poterlo fare senza essere cacciati. Qui arriva l’ormai celebre endorsement di Grillo: “Io mi fido di Di Maio anche quando sta zitto”. Una frase in cui risuona fragorosa tutta la presa per il culo di un’operazione il cui picco politico è venderci Di Maio come Kissinger. Allora Di Maio non si ferma più. Qui ha inizio una formidabile supercazzola “moderata” che diventa l’esatta rappresentazione di un paese impazzito, avvitato su sé stesso. Di Maio sposta il grillismo a destra sull’immigrazione, al centro sull’euro, scavalca la sinistra sul reddito di cittadinanza, reclama la chiusura dei negozi nei giorni di festa perché “i bimbi devono crescere a contatto con i loro genitori”, dice proprio così, “i bimbi”. Si definisce “profondamente cattolico” su Avvenire, bacia l’urna di San Gennaro, va a Cernobbio per “tutelare chi crea valore” promettendo “guerra alla spesa pubblica”, va a Campobasso perché “i molisani sono ostaggio del neoliberismo”. Sono i superpoteri forti che derivano dell’essere “postideologgici”. La tv nel frattempo gli offre uno spazio di manovra sconfinato. La sua immagine cambia. Mario Monti lo definisce “un raffinato borghese dotato di una compiuta articolazione intellettuale”, scaraventando in un lontanissimo passato congiuntivi sperimentali e golpe in Venezuela. D’altronde va riconosciuto che Di Maio in tv è migliorato parecchio. Anche perché il paradosso di restare puri e “diversi dagli altri” andando in televisione come tutti, anzi di più, è stato risolto brillantemente: bastava eliminare il contradditorio. Come nei tappeti rossi stesi ai grillini nei talk di La7. Aggiungete le “tecniche di respirazione” e “rilassamento posturale” apprese dalla ex fidanzata addetta al training televisivo per la Casaleggio Associati e il gioco è fatto. “A me tremerebbero le gambe a fare il premier a poco più di trent’anni, lei la vedo molto tranquillo”, chiede Severgnini a Di Maio, ospite da Gruber. Di Maio risponde che lui “non è l’uomo solo al comando” che “si farà un gioco di squadra”, che si “circonderà delle persone migliori”, che “la squadra di governo sarà patrimonio del paese”, che lui “non parla di ministeri, parla di valori”. “Mi sembra un ottimo ragionamento, conclude Lilli Gruber.
L’unico baluardo di civiltà resta Bruno Vespa. Tra i pochi a incalzare Di Maio leggendo passi del “non statuto” e chiedendo spiegazioni, a smontargli i calcoli delle coperture per il reddito di cittadinanza, mentre Di Maio dice, “tutte le misure sono interconnesse”, a chiedere, “mi scusi ma ancora non ho capito il ruolo di Davide Casaleggio, a che titolo è andato a parlare con l’ambasciatore inglese?”. “Davide ha progettato a costo zero i nostri sistemi operativi”, risponde Di Maio. Dissolvenza. Nero. Sipario.
Nell’ottobre 2012, armato di muta, cuffia e occhialetti, Beppe Grillo si tuffava nelle acque di Cannitello, presso Villa San Giovanni, per un’ardimentosa traversata a nuoto dello stretto di Messina a sostegno della campagna siciliana del Movimento “nonostante le pessime previsioni meteo”, come tenevano a precisare i giornali. “E’ il terzo sbarco”, diceva approdando esausto sulle spiagge di Messina, “prima quello dei Savoia, poi gli americani che han portato la mafia e oggi io col Movimento 5 stelle”. Cinque anni dopo, Di Maio va al Forum Ambrosetti davanti a una platea di manager, imprenditori e “poteri forti”, spiega che il Movimento non è una forza antieuropeista, ridimensiona la possibilità di un referendum per uscire dalla moneta unica, parla di “regole e lacci che stanno soffocando la nostra economia”, dice “noi vogliamo creare, non distruggere”. Nel 2012 una baracconata come la nuotata sullo stretto era facilmente rubricata alla voce “populismo”, qualcuno tirava fuori Mussolini, le imprese di D’Annunzio, Italo Balbo, e finiva lì. Nel frattempo però il populismo si è espanso, diffuso, vaporizzato su tutta la scena politica. E’ un “sentiment” del nostro tempo con cui dovremo fare i conti per molti anni a venire. Non basterà smontare il progetto Di Maio, ma di sicuro è un ottimo inizio.