Chi ha “venduto" meglio il suo prodotto? L'analisi marketing della campagna elettorale

Valter Casini*

Dal Pd al centrodestra, passando per M5s e LeU, i punti di forza e le debolezze delle strategie dei partiti commentati da un esperto di marketing politico 

La marketing view delle campagne elettorali in questo 2018 vuol dire uscire dalla sola analisi della comunicazione politica e affrontare con cinico realismo l’ecosistema mediale in cui viviamo, l’attuale industria dell’informazione e il suo consumo. Insomma il mercato e, quindi, il marketing.

Il paradigma imperante è la contaminazione - in forma ibrida - fra analogico e digitale; se preferite, la comunicazione digilogica.

 

E non si possono analizzare – soprattutto in chiave marketing – le campagne elettorali dei vari schieramenti, senza tenere conto che chi ne ha disegnato la strategia (e in corso d’opera le tattiche) ha dovuto fare i conti non solo sul rapporto fra prodotto e consumatore ma anche sulla conclamata disaffezione del consumatore al prodotto, la cui causa principale – a mio modo di vedere – è stata scegliere la comodità di un mall come Amazon piuttosto che la storica e faticosa gestione dei piccoli negozi di quartiere.

 

Fuori dalla metafora, per una politica scarsa di idee e risorse economiche, appoggiarsi completamente ai media, ed in particolare alla televisione, smantellando sezioni, circoli, incontri e comizi sul territorio, è sembrata la “soluzione” migliore per fare comunicazione politica. La conseguenza di questa scelta è stata la spersonalizzazione della relazione con e tra i cittadini e il conseguente astensionismo.

 

Il processo di digitalizzazione, nel frattempo, ha capovolto il paradigma della comunicazione mediale al tempo del mass-market. Possiamo azzardare che siamo passati da una comunicazione di massa ad una auto-comunicazione di massa, caratterizzata da un forte individualismo indotto dalle relazioni sociali a rete. La metafora che meglio rende l’idea dei comportamenti sociali in rete è quella dello sciame di api e la logica dell’intelligenza connettiva.

Non da ultimo direi che è da considerarsi oggi mai acquisita la posizione di mercato, in un mercato dove non solo le api sciamano ma il loro protagonismo le porta a provare più piacere nel distacco che nell’appartenenza, scoprire di essere determinanti cambiando prodotto piuttosto che esserne fan, testimonial e fedeli.

 

Quindi ritengo superata la sequenza campagna elettorale-acquisizione del consenso e poi governo del consenso in favore di quello costitutivamente elettoralistico che devono assumere i partiti e i movimenti politici, almeno fino a quando non saranno stati capaci di superarsi.

 

In Italia, tolto il caso del lancio di Forza Italia nel 1994, i movimenti politici, i politici e la politica, di marketing, di networking, di mercato e di digitale – purtroppo – hanno studiato poco e male; e anche i giovani impegnati in politica confondono il marketing con l’essere creativi, il digitale con i social e il mercato con l’e-commerce.

Anche quello che viene venduto e comprato come un caso di eccellenza di come si possa costruire consenso e gruppo attraverso la rete e gli strumenti digitali, ovvero il M5S, è una grande mistificazione, perché nulla del successo del M5S è accaduto grazie alla rete; tutto è accaduto grazie all’intelligenza connettiva di Casaleggio, a un grande agitatore come Beppe Grillo e ad un sapiente storytelling sul come la rete è il basso della società e quindi il punto di partenza di un movimento che vuole partire dal basso.

 

A sostegno di quanto detto finora, passo ad analizzare le strategie di marketing politico messe in atto, piò o meno consciamente, dalle principali organizzazioni politiche in questa campagna elettorale.

 

Il Partito Democratico è partito con una serie di handicap rilevanti. Non era chiara la “gamma prodotti” che avrebbe dovuto rappresentare, veniva da un flop di lancio del prodotto Referendum, avrebbe voluto cambiare testimonial ma non poteva. La conseguenza è stata un forte ritardo nella partenza e il non aver potuto utilizzare la tecnica delle “offerte speciali” perché già la concorrenza aveva offerto ogni possibile sconto-regalo-promozione. Il PD ha quindi optato per l’unico marketing possibile, quello di distinguersi non per differenza ma per normalità, utilizzando come testimonial i suoi uomini più affidabili e rassicuranti e proponendo una versione di Matteo Renzi in fase di “redenzione” e “contrizione”. Complessivamente direi che la scelta dal punto di vista di mercato è stata quella di limitare i danni e puntare sulla sconfitta complessiva invece che sulla vittoria individuale. Fra i punti di forza del marketing del PD segnalerei il ruolo di out-insider giocato molto bene da Gentiloni, Franceschini, Minniti, Calenda, Padoan, Martina, Lorenzin. La rappresentazione di un non-partito, di un team di campioni che scendono in campo per costituire una nazionale che deve vincere una sfida fondamentale.

Indipendentemente dal risultato che il PD farà, sarà opportuno indagare sulla possibilità di prototipare questa esperienza in un’ottica di costruzione di un modello capace di superare i paradigmi partito e movimento, entrambi non capaci di sfruttare le potenzialità dell’intelligenza di rete, delle sinapsi sociali e della moltiplicazione per sciame.

Direi che il maggior punto di debolezza mostrato è stata la ricandidatura (perché, come e dove) della Boschi per il fatto che farlo è un gesto di forza che però non è coerente – quindi dissonante – con il resto della strategia.

 

Passo subito a parlare di LEU perché la strategia del partito di Bersani e D’Alema è strettamente connessa con quella del PD. Sia nel ritardo della partenza, dovuta ai medesimi motivi, sia perché in larga parte insiste sullo stesso target. Non credo, da marketer, che sia credibile la visione che ho sentito spesso rappresentare, quella di una ricerca di raggiungere l’elettorato di sinistra scontento del PD arginandone lo slittamento verso il M5S. Non entro nel merito dei motivi della scissione – prima – e della nascita di LEU – dopo – anche se a mio avviso palesi a tutti e riconducibili a lotte di potere, primati e candidature, perché quella si che è stata politica e non marketing. Resta il fatto che si divideranno lo stesso target e se smottamenti di elettori verso il M5S ci saranno, saranno fra il target PD-Renzi e non quello PD-Bersani e D’Alema.

Tornando a LEU ritengo che la scelta del testimonial non sia stata vincente come anche gli slogan che ha utilizzato per convalidare il suo ruolo, vantando la sua esperienza passata di magistrato e la sua inesperienza come politico puro. Orbene se questa immagine può funzionare per i 5 Stelle proponendola come certificato di garanzia di onestà, non è certamente efficace per un prodotto storico, consolidato, noto fino a correre il rischio di aver stancato il consumatore come quello di Bersani, D’Alema & Co. Francamente avrei consigliato una campagna di usato sicuro piuttosto che quella della ventesima serie della stessa autovettura con alla guida un serio signore che non ha mai guidato una vettura.

Ma nulla di questo deve stupire dal momento che gli obiettivi di LEU sono solo quelli di mantenere una presenza nello scaffale in attesa del crollo nel mercato del prodotto antagonista: Matteo Renzi.

Punto di forza del marketing di LEU la passione e la ostinatezza del popolo di sinistra a perdere e quindi a votare LEU nonostante tutto e tutti, punto di debolezza la scelta di Grasso come testimonial, se fossi stato in loro avrei tenuto il punto di coerenza con Bersani o avrei messo in prima fila la Boldrini.

 

Saltiamo a piè pari il centro che mai come in queste elezioni è centrale in quanto è ovunque e passiamo a destra. La destra ha scelto la strategia di presentare tre prodotti, uno diverso dall’altro ma che verranno fatturati dalla stessa azienda produttrice. Una strategia da multinazionale, dove il consumatore spesso non sa che quando è indeciso davanti a tre dentifrici diversi e concorrenti in realtà sono tutti della stessa azienda.

C’è il prodotto nazionalista, quello nazionalpopolare e quello conosciuto, con i suoi difetti ma che oramai sei abituato a vedere nello scaffale.

 

Hanno tre pubblici fondamentalmente diversi ma con un tratto determinante comune, la ricerca di un partito che sia come loro. La multinazionale Berlusconi ha messo sullo scaffale tre prodotti che hanno questo punto di forza, rappresentare tre tipi italiani. La Meloni ne rappresenta con coerenza e profilatura perfetta uno, Salvini un altro e Berlusconi il tipo italiano per eccellenza.

E sì, perché con tutti i suoi difetti, anzi proprio per i suoi difetti, il prodotto Berlusconi è il prodotto italiano per definizione. La somma dei tre target fa il gruppo di acquisto più numeroso. Insomma, banalmente, la destra vende un prodotto di destra ad un pubblico di destra: la maggioranza degli italiani.

Il punto di forza del marketing elettorale della multinazionale della destra è stato quello di far apparire in competizione assoluta i suoi tre prodotti, differenziandoli ad arte, toccando punti straordinari di dissociazione del proprio elettorato. Il punto di debolezza è che quando si ha in squadra Totti lo si deve far giocare assolutamente ma non 90 minuti tutte le partite del campionato.

 

Torniamo al M5S. Il loro è un movimento, tanto antico quanto post-moderno e quindi attuale. Non è modernità, e Grillo lo ha compreso, il suo comportamento degli ultimi tempi ce lo dice, non sarà capace di superarsi, perché non c’è più il maestro Gianroberto ma è e funziona. Oggi è e oggi funziona. E funziona perché si basa su due forti cardini del marketing mix allargato: non comprare comprando altro, protagonismo del consumatore, o meglio consumattore.

L’elettore M5S non vota i candidati, tanto che non è neanche importante chi siano, cosa abbiano fatto e cosa sanno fare, vota se stesso. Ogni elettore del movimento vota se stesso e la somma di tanti voti unicandidato fa i tantissimi voti che prenderà il M5S.

L’ossimoro del M5S è non poter governare perché se potessero governare il difetto di fabbrica del progetto verrebbe fuori in tutta la sua essenza. È vero che in alcune città l’ossimoro è venuto meno perché gli altri hanno perso di più di quanto ha perso il movimento, ma l’inerzia dell’atteggiamento fideistico di chi vota se stesso ancora è forte e lo sarà fino a quando non verrà percepita l’ineluttabilità dell’equazione governare il paese impedisce di governare il consenso.

 

Individuo il maggior merito della campagna del movimento nella disciplina di partito (scrivo consapevolmente la disciplina di partito) e nel continuare a far credere ai propri fan (scrivo esattamente fan e non elettori o iscritti) di essere un partito liquido e digitale. La scelta che credo sia stata particolarmente sbagliata è quella di non essere riusciti a gestire al meglio il tormento interiore di Beppe Grillo e il suo bisogno di tornare a volare alto.

 

Tutto il resto, dal punto di vista del marketing sono nicchie che come gli affluenti creano una bellezza orografica ma non influiscono sulla portata del fiume.

Il 5 marzo lo scenario che immagino è un parterre di sconfitti, chi più e chi meno e di un grande sconfitto: il sondaggio.

Scopriremo che la liquidità non si sonda perché è impossibile fermarla per più di qualche giorno e che il concetto del “campione”, unità di misurazione dei sondaggisti, è un concetto che non funziona più. Non è superato perché non siamo stati capaci di superarlo, ma non essere superati non vuol dire essere veloci.

E allora? E allora se nessuno è veloce tutti, dal primo all’ultimo, sono vicini e quindi bisognerà trovare una soluzione per governare il paese visto che non si è riusciti a governare il consenso. E, come la storia insegna, toccherà agli uomini di buona volontà. Nel mentre qualcuno dovrà mettersi a lavorare per capire che il mondo, l’Europa, l’Italia, la nostra Regione, la nostra città, il nostro quartiere non è cambiato, è diventato cambiante e che quindi quello che abbiamo fatto fino ad oggi è esattamente quello che non dovremo fare più e che quello che faremo e che funzionerà, sarà superato nel momento dell’uso. E così sarà sempre.

 

*Fondatore di Morris Consulting, società inglese di marketing e comunicazione, che si occupa di marketing politico sin dal 1994. È membro della European Association of Political Consultant e della International Association of Political Consultant e ha diretto decine di campagne elettorali