Nella testa di Mattarella
A chi si dà un incarico di governo? Ripasso di storia per capire da dove si parte il 5 marzo
Roma. Che cosa farà Sergio Mattarella dopo il voto di domenica 4 marzo? A urne chiuse e risultato ottenuto, il compito del presidente della Repubblica potrebbe rivelarsi complicato (ma non senza bussola, come qualche spensierato commentatore straniero potrebbe pensare). Specie se i sondaggi non mentono e se il quadro politico dovesse essere quello attuale. A lui tocca – articolo 92 della Costituzione – la nomina del “presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri”. Asciutto, essenziale. Forse troppo? Qualcosa di più dice l’articolo 94 a proposito della legittimazione dell’esecutivo: “Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere”. Nel lasciare ampio spazio alla prassi e alle regole convenzionali, viene dunque indicata una strada certa: se il governo non ha la fiducia in entrambe le camere, è entrato in carica ma è come se fosse nato morto.
“Per una lunga fase della storia repubblicana la formazione del governo – scrive Carla Bassu in un volume appena pubblicato dal Mulino, curato dai professori Francesco Clementi, Lorenzo Cuocolo, Francesca Rosa e Giulio Vigevani, che martedì sono stati ricevuti al Quirinale dal Presidente Mattarella al quale ne hanno fatto dono – è stata determinata da coalizioni post elettorali, basate su accordi tra i partiti che subordinavano l’appoggio al Presidente del Consiglio all’assegnazione di ruoli nella compagine governativa”.
Come ha funzionato finora la ricerca preventiva di una personalità a basso “Cx”, cioè con un basso coefficiente di “attrito politico”
In sostanza, dal 1948 al 1993 i governi sono stati determinati dalle alleanze che coinvolgevano le forze vincitrici delle elezioni. Era il proporzionale, bellezza: i partiti che conquistavano più seggi erano chiamati a concordare la formazione del governo, al quale partecipavano in ragione del loro peso elettorale. Con la dovuta lentezza, naturalmente: “La velocità dei processi nel 1947, nel ’48 e nel ’49 – dice al Foglio il costituzionalista Marco Olivetti, ordinario alla Lumsa – era infinitamente inferiore rispetto a oggi, tutto era più lento e alcune procedure molto mediate sarebbero oggi poco sostenibili, visto che tutti i parlamentari sono con il cellulare in mano”. Il procedimento, scrive la professoressa Bassu, per l’appunto “si caratterizzava per un susseguirsi di prassi consolidate: si apriva con l’avvio delle consultazioni da parte del Capo dello Stato che chiamava al Colle i Presidenti delle due Camere, i gruppi parlamentari e i principali esponenti delle formazioni destinate a comporre la maggioranza per individuare una personalità gradita a tutti”. Al termine di questa fase, il Presidente della Repubblica conferiva un mandato esplorativo a una figura in grado di formare un esecutivo capace di raccogliere il consenso della maggioranza parlamentare. Se l’incaricato riusciva a formare un governo con il sostegno delle due Camere allora il Capo dello Stato era tenuto a nominarlo presidente del Consiglio dei ministri e a nominare anche i ministri da lui proposti.
Tutto cambia con gli anni Novanta. La riforma elettorale del 1993 introduce un modello a prevalenza maggioritaria, con l’idea di creare un assetto bipolare. “A partire dalle elezioni politiche del 1994 – scrive Bassu – gli schieramenti si presentarono capeggiati da un leader destinato, in virtù di una convenzione costituzionale, a essere incaricato dal presidente della Repubblica della formazione del governo. Si verifica dunque un cambiamento nel momento e nel metodo della scelta del Presidente del Consiglio che avviene prima dell’avvio della competizione elettorale e non è più dovuta ad accordi conseguenti all’esito delle votazioni”. La prassi, come si capisce, è destinata a cambiare nel corso della storia. A lungo è stata osservata una convenzione costituzionale che imponeva al presidente della Repubblica di accettare l’indicazione dell’incaricato da parte del vertice del partito di maggioranza relativa; questa convenzione è stata rispettata fino agli esiti delle elezioni politiche del 1976. Poi le cose sono cambiate. Nel febbraio 1979, il presidente Sandro Pertini affidò l’incarico a Ugo La Malfa, leader di un partito minore, il Pri, anche se poi non fu nominato. Altri casi: l’incarico e la nomina di esponenti di partiti minoritari della coalizione con il primo e il secondo governo Spadolini (1981-1982) e con il primo e secondo governo Craxi (1983-1985 e 1985-1986); con il governo Amato (1992-1993) e con quello del tecnico Ciampi (1993-1994) da parte del presidente Scalfaro, seguito dal governo di un altro tecnico, Lamberto Dini (1995-1996).
La casistica degli incarichi e degli incaricati è dunque enorme. Nel 2018 l’agognato bipolarismo di un tempo non esiste più, siamo – almeno dalle elezioni del 2013 – in un orizzonte tripolare. Quindi che cosa potrebbe succedere dopo le elezioni di domenica prossima? È lecito ipotizzare almeno tre scenari: la coalizione di centrodestra potrebbe essere la più votata; il M5s potrebbe essere il partito più votato; il Pd potrebbe avere il gruppo parlamentare più consistente. “In tutti e tre i casi – dice al Foglio il professor Clementi, docente di Diritto pubblico comparato all’Università di Perugia – si tratterebbe di non maggioranze, di tre insiemi, almeno sulla carta, non sovrapponibili. Potrebbe nascere un governo di alcuni, costituito da chi ha preso più voti degli altri, vincendo le elezioni, ma non ha la maggioranza e deve quindi costruirla in parlamento. Potrebbe nascere un governo di nessuno, costituito da non parlamentari e nato sulla base del fatto che non si riesce a trovare una quadra politica (e sarebbe naturalmente un governo di transizione verso un potenziale ritorno al voto). Oppure ci potrebbe essere, terza ipotesi, un governo di tutti. Tutte le forze partecipano al governo di larghe intese con l’obiettivo di fare una riforma della legge elettorale e poche altre scelte in ragione della stabilità del paese per poi comunque tornare al voto. Di certo, in ogni caso, in attesa di un nuovo governo, rimane in carica il governo Gentiloni garantendo anche i nostri impegni interni ed internazionali”.
Insomma sarebbe un quadro quantomeno incerto, eufemismo, a differenza di altre elezioni in cui la maggioranza parlamentare era definita, come in 7 delle 17 precedenti legislature (1948, 1994, 1996, 2001, 2006, 2008 e 2013). Nel 2008 Silvio Berlusconi vinse nettamente le elezioni con il 46,81 per cento, superando Walter Veltroni fermo al 37,55 (con il Pd al 33,2) e fu addirittura in grado di presentare all’allora presidente Giorgio Napolitano la lista dei ministri del nuovo governo all’atto stesso dell’incarico. Berlusconi fu nominato subito. Con questa legge elettorale è difficile pensare che anche la coalizione più in forma di tutte, il centrodestra, possa superare il 40 per cento. Comunque sia, tra la coalizione più votata, il partito più votato e il gruppo parlamentare più numeroso, che cosa potrebbe scegliere Mattarella? “In astratto – dice Olivetti al Foglio – credo che dovrebbe scegliere il criterio della coalizione che ha avuto più seggi. Anche perché il presidente della Repubblica non deve trovare la minoranza più forte, a meno che non lo voglia fare a scopo dimostrativo, prima di offrire una sua proposta, e dando quindi un preincarico al leader della prima coalizione, poi al leader del primo partito e poi, se neanche questo dovesse avere la maggioranza, al leader del gruppo parlamentare più forte. Così però avremmo perso 20 giorni prima di arrivare alla proposta vera. Il faro del presidente della Repubblica non è un governo di minoranza, per quanto più forte degli altri, ma un governo che possa avere la maggioranza”.
Quello che sfugge ad alcuni commentatori, aggiunge Clementi al Foglio, “è che il presidente ha già spiegato quale sarà il percorso. Oltre alle consultazioni, sarà la costituzione delle Camere, con l’elezione dei suoi Presidenti, il primo banco di prova per misurare gli indirizzi politici che si possono ricavare dall’esito del voto”. D’altronde, le forze politiche non potranno traccheggiare troppo. Secondo l’articolo 4 del regolamento del Senato se alla terza votazione nessuno ha riportato la maggioranza “il Senato procede nello stesso giorno al ballottaggio fra i due candidati che hanno ottenuto nel precedente scrutinio il maggior numero di voti e viene proclamato eletto quello che consegue la maggioranza, anche se relativa”. Tradotto: il 24 marzo, nel pomeriggio, già avremo con ogni probabilità il nuovo presidente del Senato. E già in quella sede avremo visto, spiega Clementi, “il delinearsi di trattative politiche e di potenziali alleanze in vista della formazione di un nuovo governo, anche perché gli schieramenti con cui noi andremo a votare domenica verosimilmente non saranno gli stessi il giorno dopo il voto”.
Il governo dunque potrebbe non nascere subito. Sarebbe una tragedia? No. E neanche un’eccezione: in Europa, anche dove le coalizioni erano ben sperimentate, si è fatto fatica a raggiungere le necessarie intese (Austria, Belgio, Danimarca, Germania, Finlandia, Norvegia, Paesi Bassi): 543 giorni per fare il governo Di Rupo e 136 per il governo Michel (Belgio); 225 per il governo Rutte (Paesi Bassi); 125 per il governo Rajoy (Spagna); per non parlare del quarto governo Merkel (Germania), al buio da tre mesi e mezzo (che potrebbe nascere proprio il 4 marzo). Insomma, dice Carlo Fusaro, professore di Diritto pubblico comparato dell’Università di Firenze, in un articolo pubblicato sul blog della Sise, Società Italiana di Studi Elettorali, dovremo “accettare senza polemiche pretestuose che il governo Gentiloni continui a operare, salve scelte di fondo, per i mesi delle trattative: una sorta di ordinaria amministrazione rinforzata relativamente condivisa”.
Prassi e modelli. Da cosa dipende l’attivismo del presidente della Repubblica (e cosa serve per guidare un esecutivo, in caso di stallo)
Nel frattempo, naturalmente, la politica farebbe il suo corso. Se Mattarella non volesse svolgere un ruolo di mediazione diretta fra le forze politiche, potrebbe ricorrere a un mandato esplorativo, anche questo, come per le consultazioni e l’incarico, è un istituto non espressamente previsto dalla Costituzione. Cioè potrebbe affidare a una personalità politica rispettata, come il presidente del Senato, il compito di trovare linee di accordo per costruire una maggioranza. Nel 1983 Sandro Pertini conferì il mandato esplorativo a Tommaso Morlino, presidente del Senato, e nel 1987 Francesco Cossiga lo conferì a Nilde Jotti, nel corso della crisi del secondo governo Craxi. Si tratta però di un escamotage che di solito non viene utilizzato a inizio legislatura. In altri casi il capo dello Stato è ricorso non al mandato esplorativo ma al già citato preincarico. Diversamente dal mandato esplorativo, il preincarico si connota per un collegamento tra il compito che il capo dello Stato affida al personaggio cui è stato chiesto di prendere contatto con le varie forze parlamentari e il futuro incarico di formare il nuovo governo. Per cui al preincarico si ricorre in situazioni politicamente complesse, “quando non si vuole ‘esporre’ troppo l’incaricato sul piano politico”, scrivono Stefano Merlini e Giovanni Tarli Barbieri in “Il governo parlamentare in Italia”.
Nella storia d’Italia questa ipotesi si è verificata diverse volte: 1953, 1955, 1957, 1966, 1968, 1970. Più recentemente è accaduto nell’ottobre 1998 prima con Romano Prodi, che ha rinunciato, e poi con Massimo D’Alema (il presidente era Oscar Luigi Scalfaro) e da ultimo con Pier Luigi Bersani nel 2013 (con Giorgio Napolitano capo dello Stato). Singolare fu il mandato esplorativo conferito nel 2008 al presidente del Senato Franco Marini, perché in questo caso era evidente a tutti che l’eventuale soluzione della crisi di governo, che non fu trovata, avrebbe portato alla nascita di un governo di scopo, a progetto diciamo, che sarebbe stato presieduto dallo stesso Marini. Come sottolinea il professor Olivetti in un articolo su Avvenire, “il Presidente potrebbe allora scegliere l’altra strada, quella di condurre lui stesso la mediazione fra le forze politiche, ma con un inconveniente: in caso di designazioni concorrenti per la premiership (ad esempio dei Cinquestelle per Di Maio, del Centrosinistra per Gentiloni e del Centro-destra per Tajani) in uno scenario ipotetico in cui nessuna indicazione fosse supportata da una maggioranza, il Capo dello Stato dovrebbe operare scelte e magari accettare l’ipotesi di incarichi che non vadano a buon fine. L’alternativa, in questo caso, sarebbe quella di una designazione di iniziativa non dei partiti, ma del Presidente della Repubblica – sul modello di Pella nel 1953, di Ciampi nel 1993, di Dini nel 1995 e di Monti nel 2011 – il che, però, porterebbe ad un ritorno a quell’attivismo presidenziale che Mattarella ha accuratamente evitato nei primi tre anni del suo mandato, differenziandosi, in questo, dalla linea a suo tempo seguita da Scalfaro e da Napolitano”.
Diversamente, Mattarella potrebbe dare un incarico “pieno” al presidente del Consiglio, che potrebbe avere margini di manovra più ampi. Certo, con il rischio di avere anche un governo morto. Nel 1953 Attilio Piccioni fu incaricato dal presidente Luigi Einaudi di formare il nuovo governo. Dopo essere riuscito a strappare il consenso dei liberali e l’appoggio esterno dei socialdemocratici (ai tempi l’appoggio esterno andava di moda), il Psdi cambiò rotta e annunciò il voto contrario, costringendo Piccioni a rinunciare all’incarico. Nel 1979, Pertini incaricò Giulio Andreotti, che però rinunciò; a quel punto fu incaricato Bettino Craxi, che però fu costretto a rinunciare; si arrivò dunque a Filippo Maria Pandolfi, che però fu stoppato da Craxi; l’incarico, alla fine, lo ebbe Francesco Cossiga, che riuscì a essere nominato. Come ha ricordato Olivetti, dal 1948 ad oggi il governo nominato ad inizio legislatura dal Capo dello Stato ha sempre ottenuto la fiducia, salvo l’ottavo governo De Gasperi nel luglio 1953 (fallimenti analoghi sono stati subiti da Fanfani nel 1954 e nel 1987 e Andreotti nel 1972 e nel 1979, ma non all’inizio della legislatura).
Tutti oggi aspirano a Palazzo Chigi, da Luigi Di Maio a Matteo Salvini. Paolo Gentiloni aspira a rimanerci il più a lungo possibile. Ma Mattarella potrebbe anche ricorrere a una personalità attualmente non in corsa per il parlamento. Roberto Maroni, Carlo Calenda, o altri. Già nel 2011, dopo la caduta del governo Berlusconi, Giorgio Napolitano affidò l’incarico a Mario Monti costruendogli, di fatto, anche una maggioranza. C’è di nuovo la possibilità che un Monti spunti all’orizzonte? Naturalmente sì. “Anche se – dice Clementi – deve avere un piccolo atout: questa personalità dovrebbe essere capace di coagulare una maggioranza e ottenere una doppia fiducia. Servirebbe naturalmente del tempo, perché anche l’elettorato, spaccato verosimilmente in tre, dovrebbe prenderne atto. La questione insomma avrebbe bisogno di settimane, se non mesi, per maturare. Monti riuscì in tre giorni a trovare una maggioranza politica perché, in qualche modo, vi era già una maggioranza favorita dal peso del Quirinale in quella scelta. A leggere, tuttavia, con attenzione quanto il Presidente Mattarella ha detto nei discorsi di fine d’anno, da quelli alle Alte cariche a quello a tutti noi cittadini, una scelta di questo tipo, al momento, invece, non sarebbe più conforme all’attuale tempo politico. Anche se, ad oggi, naturalmente, tutto può rapidamente cambiare. Di certo, comunque, servirebbe una personalità non targata politicamente, che ha un basso ‘Cx’, cioè con un basso coefficiente di ‘attrito politico’, quindi la meno sgradita ai partiti e al tempo stesso con un buon gradimento tra gli elettori.Trovare il prescelto, naturalmente, non sarà un processo breve”. Servirà del tempo, anche perché le coalizioni non si possono smontare e rimontare prima delle amministrative di giugno. Nel frattempo, resterà Paolo Gentiloni, nonostante le prevedibili ma inutili grida del M5s al “golpe”.