Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione della cerimonia per lo scambio degli auguri di fine anno (LaPresse)

I presentabili

David Allegranti

Pontieri, pompieri, riserve della Repubblica: fin qui silenti, ma a urne chiuse sarà il loro momento

L’ora del bercio da campagna elettorale s’è conclusa, finora la scena è stata tutta degli impresentabili, o non presentabili, di quelli che non hanno i requisiti per candidarsi – anche solo per gli standard di partito – eppure con una piroetta vengono elevati ad aspiranti padri della patria, perché il “filtro qualità” non filtra abbastanza; finora la scena è stata di quelli che vanno in tv e gridano più dell’avversario, lo scavalcano, elargiscono demagogia a prezzi popolari, sono dei Cetto Laqualunque con ancora meno legittimazione, twittano come forsennati battute sagaci contro i partiti concorrenti, ritwittano segretari, capi e capetti per dimostrare di essere ortodossamente corretti. Adesso però è l’ora dei presentabili, di quelli che da lunedì dovranno costruire maggioranze in assenza di vincitori certi, anche perché c’è il rischio che le coalizioni pre-elettorali tra un paio di giorni non ci saranno più, saranno scomposte in vista di un bene superiore – il governo, of course. E tra probabili grida golpiste, toccherà spiegare di nuovo la Costituzione e la democrazia parlamentare, sicché un conto è il legittimo bercio da campagna elettorale imposto dalla propaganda, un conto è poi l’alchimia del Palazzo, per cui i governi nascono se hanno la maggioranza, non se sono frutto di una minoranza, per quanto forte.

 

Da lunedì dovranno costruire maggioranze in assenza di vincitori certi: c’è il rischio che le coalizioni pre-elettorali non ci saranno più

Nel 2013, prima ancora del referendum, prima ancora di Banca Etruria, in quota pontieri – variante seconda della classe, il primo era naturalmente Matteo Renzi – c’era Maria Elena Boschi, la vedevi camminare in transatlantico e parlare con tutti; dalla minoranza del Pd, ancora esistente, a Forza Italia. Altri tempi, quando Boschi ancora non era costretta a sbarcare a Bolzano, insieme a Heidi e a tutte le caprette. C’è sempre un momento Gianniletta (tutto attaccato) nella vita della Repubblica, c’è sempre un momento in cui diventa preminente chi per tutta la campagna, e anche per il resto dell’anno a dire il vero, esercita il suo potere silenziosamente, senza sbracare, senza gare da spogliatoio a chi ha l’agenda più lunga, non è insomma una gara a chi twitta più forte. Quel momento è arrivato. Non è dunque il momento dei Renato Brunetta, capogruppo alla Camera, che ti si attaccano al polpaccio e non ti mollano finché non sanguini, è l’ora dei Paolo Romani, degli smorzatori di incazzature, di quelli che difendono i legittimi interessi del proprio partito senza dare dello stronzo all’avversario (anche se poi magari lo pensano, ma questo è un altro discorso).

 

E’ insomma l’ora dei Romani, anzi proprio di Romani, uno che mantiene il suo aplomb anche quando Vincenzo D’Anna (impresentabile) gli dà del “cortigiano” in Aula, anche quando Matteo Salvini dice che se va al governo abolisce il decreto Lorenzin sui vaccini. Romani non è l’unico, c’è anche Mara Carfagna, che è madrina della patria in attesa di ulteriori sviluppi. Il Cav. dice che ancora non è pronta a governare, così come – dice – non lo è Franco Frattini, ma la portavoce di Forza Italia alla Camera è quantomeno pronta per essere il volto presentabile del brunettismo. Qualche giorno fa, pure di fronte alle ecoballe di Roberto De Luca, figlio di Vincenzo, non ha perso la tensione garantista e ha detto “non diventiamo giustizialisti dalla sera alla mattina solo per raccattare qualche voto”.

 

Poi certo, s’è concessa il minimo sindacale: “A che titolo si trova a parlare di ecoballe? Se davvero lo fa in qualità di tecnico, come ha spiegato il suo avvocato, siamo in presenza quantomeno di un evidente conflitto d’interesse”. Non dimentichiamoci del primo della lista, naturalmente, specie dopo l’ultima benedizione berlusconiana: Antonio Tajani, il Gentiloni di Forza Italia, che già è riuscito nell’impresa di farsi eleggere presidente del Parlamento europeo superando Gianni Pittella. A Matteo Salvini è venuto un mezzo colpo, tant’è che ha dovuto subito precisare: “Sono pronto a fare il premier, oneri e onori. Sono pronto a cominciare a lavorare. Ho già in mente la lista dei ministri ma non faccio nomi, per evitare di fare come i grillini che mettono e tolgono”. E Tajani? “E’ un buon presidente del Parlamento europeo. Io ho una visione più netta sull’Europa. Rispetto Tajani, ma il mio auspicio è che rimanga presidente del Parlamento europeo, e Salvini sia il premier”.

  

Persino i Cinque stelle hanno i loro, come Alfonso Bonafede, in buoni rapporti col Pd, ribattezzato nel movimento “il democristiano”

Persino il M5s ha i suoi presentabili, come Alfonso Bonafede, ribattezzato nel partito di Grillo & Casaleggio “il democristiano”. E in effetti mantiene buoni rapporti anche con quelli del Pd che conosce da tempo. Avvocato a Firenze, nel 2009 sfidò Renzi al Comune, sicché i renziani li conosce tutti, li consulta e viene consultato. Non è più tempo per gli Alessandro Di Battista, che riempiono le piazze da non candidati, anzi adesso che ha espletato la sua missione di rockstar può lasciare la scena a chi usa un linguaggio meno incazzoso, il Bonafede appunto, che negli ultimi anni ha pure fatto da badante a Virginia Raggi e adesso assurge al ruolo di aspirante ministro della Giustizia. Ed è tutto un fiorire di riserve della Repubblica, di padri della patria, di esperti venditori d’auto senza fregatura chiavi in mano. Insomma non è l’ora dei turborenziani, di quelli che ripetono a pappagallo quello che dice il Capo, sempre però con l’aria di chi la butta sul personale, e ti dà del rosicone, dell’invidioso appena muovi una critica al Pd e al suo segretario. Sono in realtà proiezioni dei propri stati d’animo sugli altri: i turborenziani pensano che chi non è d’accordo con la ditta lo faccia solo perché voleva qualcosa in cambio e non è stato accontentato (ma in realtà proiettano sugli altri i propri comportamenti). Non è dunque tempo per Francesco Bonifazi, ma per Lorenzo Guerini, pontiere per indole ed esperienza, d’altronde ha passato gli ultimi cinque anni a farsi odiare il meno possibile dagli altri, impresa non semplice nel Pd renziano. Anche Dario Franceschini, protagonista dei retroscena, di solito nei panni del congiurato, vanta una spalla tonda così tonda da essere sufficiente a scrollarsi di dosso qualsiasi appartenenza. Casca sempre in piedi, anche per l’abilità con cui teorizza schemi contrapposti fra sistema e antisistema, coagulando così le forze del sistema, dal Pd a Forza Italia (e pure un pezzo della sinistra governista). Anche Marco Minniti potrebbe disporre di credenziali adeguate, visto che piace pure al centrodestra, con quei movimenti geopolitici da Batman calabrese, in lotta contro gli sbarchi selvaggi, per non dire Graziano Delrio, che da sempre gioca la parte del renziano responsabile, fratello maggiore dell’ex sindaco di Firenze anche se da tempo molto distaccato. Ed è tutto un riposizionarsi, beninteso. Bastava leggere l’intervista di Paolo Gentiloni di ieri al Corriere della Sera: lei si definirebbe ancora un renziano? “Non so se mi sono mai definito un renziano”. Siamo ormai in piena fase “Renzi è una risorsa”, a urne ancora calde.

     

Guerini, che ha passato gli ultimi anni a farsi odiare il meno possibile. Franceschini e Minniti. Delrio, il renziano responsabile

Ed è tempo pure per Pierferdinando Casini, che in venti giorni pare aver fatto strage di cuori democratici nel Pd bolognese. “Un mattatore. Politico di razza”, dice Matteo Maltinti del Pd di Bologna, che ormai si diverte a farsi fotografare con Casini nel suo tour neanche fosse lo Stato Sociale. Se l’ex presidente della Camera riuscisse a convincere pure l’accigliato popolo del Pd emiliano, che in realtà pragmaticamente ne ha viste un po’ di tutte e altrettanto pragmaticamente s’è anche adeguato, chi altri meglio di lui potrebbe rappresentare lo spirito delle urne chiuse, quando entrano in campo gli statisti e i para-statisti? E dire che manca Denis Verdini, uno che con i numeri ci sa fare, che valuta le leggi a colpo d’occhio – tipo Roberto Calderoli, la Treccani dei regolamenti parlamentari – e che però è in pensione senatoriale e al prossimo giro non ci sarà più. Con lui, statene certi, non ci sarebbero stati problemi di maggioranze incerte e voti da raggranellare. Impresentabile tecnicamente, direbbero dalle parti del M5s, ma politicamente presentabilissimo (e gli garberebbe, a Di Maio, avere un Verdini: col cavolo che ci sarebbero stati tutti questi candidati non compatibili con i Sacri Regolamenti). Non sono invece presentabili per una trattativa di governo, a meno che non si tratti di un esecutivo M5s-Lega, i due economisti no-euro Alberto Bagnai e Claudio Borghi. Per la Lega, va da sé, c’è sempre Giancarlo Giorgetti, che ha dato un’aura di rispettabilità finanche europea in questi anni e Roberto Maroni, che ormai politicamente ha più un piede di là che di qua e sembra perfetto per le larghe intese (sempre che pure le larghissime intese abbiano i numeri), con tutto quell’aria da statista lombardo in fase Cincinnato.

 

Paolo Gentiloni vive il momento Gianniletta da quando Renzi non è più al governo del paese, tant’è che ormai si potrebbe pure dire che esiste un momento Paologentiloni, laddove si intende un leader politico che non provoca ansie. Certo è che Gentiloni è un po’ come Carlo Calenda: vive una condizione di irripetibilità storica con il desiderio invece di autoperpetuarla e, soprattutto, di autoperpetuarsi. Ma sono entrambi politicamente compromessi, finanche in senso positivo, e anche il ministro rischierebbe di pagare un prezzo per le sue allegre sortite twittarole. E’ lo stesso destino di Carlo Calenda, ottimo smascheratore di bugiardi sui conti pubblici e fine fustigatore di cialtroni, atteso per la fase successiva a quella in cui entrano in campo i presentabili. Cottarelli infatti pare più uomo da ministero dell’Economia che da trattativa. Lo ricordiamo su La7 qualche settimana fa contro Laura Castelli del M5s, che si produsse in un uno-due letale prima sul reddito di cittadinanza poi sul referendum sull’euro, prima blaterando di pil potenziale senza aver chiaro di che cosa si trattasse e poi non riuscendo a esprimere una posizione chiara sull’euro. Laddove si dimostrava che ancora una volta ha ragione Tom Nichols nel suo saggio “The death of expertise”, dove analizza uno dei mali che osserviamo tutti i giorni: le competenze non contano, non contano gli anni di studio, non conta essere un medico o un economista o uno studioso di legge. E invece dovrebbero contare, per cui meno male che Cottarelli c’è (uno non vale uno ma un cialtronismo vale sempre zero).

     

Se Renzi è il velocista che si gioca tutto in dieci secondi, il presentabile ha bisogno di tempo. In Leu per esempio c’è Enrico Rossi

E’ proprio una condizione d’animo, quella del presentabile. In tv l’hai visto poco o punto negli ultimi mesi, perché entra in campo a partita finita e risultato più o meno ottenuto, non deve avere nel curriculum dichiarazioni che possono essere troppo facilmente rinfacciate, status su Facebook screenshottati e pronti all’uso dei nemici. Se Renzi è il velocista che si gioca tutto in dieci secondi, il presentabile ha bisogno di tempo. In Leu c’è per esempio Enrico Rossi, che insieme a Elisa Simoni rappresenta l’ala governista e non antirenziana di un partito che ha fatto dell’antirenzismo la sua ragione d’essere, fra il Conte Max che spera soprattutto di mandare a casa il segretario del Pd e Pietro Grasso che pare un passante capitato per caso in una gara elettorale. D’altronde Rossi con il Pd già ci governa, in Toscana, quindi non avrebbe problemi a benedire un bis a Palazzo Chigi. Elisa Simoni è stata assessora di Renzi in provincia, lo conosce bene, nel Pd era a sinistra ma ora in Leu è considerata di destra. Ed è di destra soprattutto perché non attacca l’ex presidente del Consiglio e non ne fa una ragion d’essere politica.

      

Prossimi giorni e prossime settimane saranno dunque dedicate alla fine arte di trovare la quadra, quando tutti saranno convinti d’aver vinto qualcosa e di pontieri e pompieri ci sarà bisogno come dell’acqua nel deserto. Astenersi perditempo, matteolebani (di entrambi i lati) e seguaci delle scie chimiche.

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.