Matteo è imputabile
Il calcio dell’asino lo lasciamo agli asini. Ma gli errori politici hanno prodotto un disastro. Riforme e partito
Milano. Il calcio dell’asino no, mai. Suonerebbe del resto più ridicolo che inappropriato, su queste colonne. Per il calcio dell’asino ci sono i cretini, gli odiatori professionali, quelli che si deliziano delle disgrazie altrui, o come si dice in tedesco. I giornali che sentivano solo odore stantio di massoneria e i carabinieri deviati che organizzavano indagini deviate. Nonché quelli che hanno aiutato a perdere, da dentro o da fuoriusciti, e ora pure si lamentano e scalciando ragliano. La parabola in picchiata di Matteo Renzi, ma che in futuro potrebbe anche rivelarsi una sinusoide, chissà (per ora non molla), è una cosa più seria e non di pochissimo conto. Se non altro perché è toccato a lui chiudere l’uscio della sé dicente Seconda Repubblica, e c’è sempre un po’ di solennità, se non di tragedia, in questi casi. Come quando Mino Martinazzoli spense la luce della Dc. Poi ovviamente ci sono il vendicativo D’Alema, le alte caricature istituzionali appena scese dalla giostra, Boldrini e Grasso, e persino l’invelenito sostegno in articulo mortis dei Prodi e dei Letta e di tutto ciò che nell’establishment non solo di sinistra ha remato contro. O si è seduto sulla riva del fiume. O si è semplicemente avvinghiato ai rami vecchi per non affondare, avendo per principio in uggia il nuovo.
Questo detto, Matteo Renzi è intelligente e ha avuto tra le mani il pallone di alcuni calci di rigore che un buon giocatore non dovrebbe avere paura di tirare. Perciò, al pari di Matteo Salvini, ma per tutt’altri motivi, anche l’ex premier e segretario sconfitto del Partito democratico è imputabile di alcuni disastri politici che dalle sue scelte sono discesi. Se fossero errori solo suoi, o del Pd, chi se ne importa. Invece hanno contribuito a preparare il disastro politico di oggi, che è proprio un crollo del sistema politico senza averne pronto un altro.
Le scelte sbagliate, che in politica sono colpe (né reati né peccati: colpe) del segretario fiorentino sono fatti reali. E come tutti i fatti politici, sono pur sempre opinabili. Ma sono elencabili, e soprattutto sono conseguenti l’uno con l’altro.
La premessa, inutile rifarla, è che il sistema italiano della Prima Repubblica, dopo essere tracollato, si è trasformato in quello ibrido della Seconda, ma senza mutare il dna costituzionale né l’esoscheletro funzionale. Le lentezze posturali e i danni mortali derivati dall’irresolutezza del coacervo li conosciamo. L’iniziativa politica fondamentale di Matteo Renzi è stata di voler cambiare l’esoscheletro, sfidando i brontosauri che se n’erano impossessati. Conosciamo anche le lentezze dell’intero paese (dall’economia al sistema museale, per alludere a un’altra vittima del 4 marzo). L’iniziativa del renzismo è stata cercare di velocizzarlo. Qualcosa è riuscito, qualcosa è rimasto all’abbozzo, poi diventando narrazione e infine scadendo in una serie di gag propagandistiche non più credibili. La scorsa estate Renzi ha scritto un libro, “Avanti”, generoso e sincero (altro peccato imputabile, essere generosi e sinceri, per un politico, ma veniale). Però era fuori tempo massimo. Nel frattempo il tesoretto del 40 per cento era evaporato, l’entusiasmo delle Leopolde svanito. E il partito sfasciato. E questi non sono errori veniali. Ma c’è di peggio.
Renzi aveva costruito una riforma istituzionale con ricaduta elettorale. Buona, cattiva, o persino ultima fune tesa sopra l’abisso che fosse. Era passata, con un accordo in Parlamento. Perché e per quali sbagli sia saltato, lo ha scritto di recente Giuliano Ferrara con il divertimento della lucida disperazione. Però poi c’è il resto. Perso il referendum, l’ex premier aveva due strade. O saltare un giro, come pure aveva detto, o fare di quel 40 o magari 28 per cento un partito suo. Macroniano ante litteram o quel che voleva. C’era chi l’avrebbe seguito. Invece non ha fatto nessuna delle due cose. La prima per senso di rivalsa (colpa politica, ma la psicologia non si può curare; del resto anche Berlusconi da anni cova soltanto voglia di rivincita). Il vero errore è stato non psicologico ma politico: restare sulla scena senza più un progetto preciso, credibile o fattibile per l’Italia. Un abituccio di buchi e di toppe tenute insieme per un anno dal sarto Gentiloni. Ma che si è stracciato sotto il vento impetuoso che pure a stare chiusi in cantina si si era sentito arrivare.
Poi l’errore sul partito. Che sarà una tana delle peggiori vipere, eppure quella, novecentesca e inservibile quanto volete, era la loro Ditta. Non la sua. Ci stavano bene, con la bocciofila le coop e un po’ di prebende. Non sarà bello, ma è la democrazia ed era casa loro. Renzi ha cercato di portarci dentro un milioncino o due (le primarie contro Bersani) di trenta-quarantenni, ha provato a fare un rave party nella bocciofila. Forse era un’idea, ma che ci sia stata una reazione è la cosa più logica e politicamente prevedibile del mondo. Non averlo calcolato, aver presunto che la Ditta fosse come l’Old Labour in un sistema bipolare secco, e di poter fare quel che fece Blair, è stato un madornale errore politico. E’ finita che ha distrutto la Ditta e il suo stesso progetto-partito. Regalando campo aperto elettorale agli sfasciacarrozze. Con l’aggravante del cinismo e della furberia: quella di prendersi la ditta degli altri per non fare la fatica di fondarne una partendo da zero. Macron non l’ha fatto. Punto. Certo, è la sinistra in quanto tale a essere fuori produzione in tutto il mondo. Renzi aveva il merito di essere stato uno dei più credibili, in Italia, ad averlo detto. Ma poi non ha avuto il coraggio. Sebbene avesse pure, per un po’, tutti i santi in paradiso giusti. Per questo gli si può imputare una parte del disastro. Perché la mancanza di volontà, in politica, è un reato.
Infine, un corollario. La dimostrazione che il Pd ha resistito – tranne qualche luogo in cui vincerebbe anche senza presentarsi – soltanto in centro a Roma o in centro a Milano, è la certificazione che la “cosa nuova” di Renzi è riuscita a parlare solo con una certa parte delle classi alte, o dirigenti cosiddette. L’ambizione di fare un partito di massa, “in marcia”, richiedeva altro. Ma se n’è accorto tardi. Ha provato a rimediare qualcosa, alla fine. Gori in Lombardia ha battuto valli e campagne per recuperare quel gap nella regione più produttiva d’Italia. Non ce l’ha fatta e non poteva. Un’altra colpa. Potrà provare a rimediare dall’opposizione. Ma non è detto e comunque è più scomodo.