Nord for dummies
La “sorpresa” della vittoria di Salvini non è una sorpresa. Le istanze del nord sono stabili. Ma chi le interpreta?
Come lo stivale di birra, lo Stivale dell’Italia può essere mezzo vuoto o mezzo pieno. Ma sempre un po’ ubriaco. O così almeno appare a molti commentatori e analisti che in questi giorni contemplano con sorpresa le nuove mappe che disegnano un paese diviso in tre, sulla coordinata delle latitudini – verdeblu lega-forzista a nord, giallo pentastellare a sud e qualche sparuta macchia rossa al centro – come fossimo tornati a prima di Garibaldi. Ragioni ce ne sono, più serie di quello che spesso si pensa, ci sarà tempo per approfondire. Limitandosi ai colori del nord, la prima cosa che sorprende sono certi moti di sorpresa. Il settentrione, percentuale più percentuale meno, è la parte d’Italia che è meno cambiata. Soprattutto, le ragioni del suo voto per il centrodestra – e adesso il destra-centro – sono nella sostanza stabili da molto tempo. Si è afflosciato il mito berlusconiano, questo sì, e la Lega ha cambiato pelle e in parte Dna. Ma l’elettorato tende ad assomigliare a se stesso. Andiamo per punti. Più di uno ha commentato che a Matteo Salvini è bastato togliere il marchio “Nord” alla Lega per vincere. Non è esatto. Salvini ha vinto una scommessa politica: ha intuito che le parole d’ordine di un ventennio fa come federalismo o addirittura secessionismo non rispondevano più alle esigenze e ai desideri. Altre parole d’ordine, come modernizzazione o internazionalizzazione, persistono a essere lontane dal vocabolario delle classi popolari e anzi sono avvertite come minacciose. Così ha puntato su temi “nazional popolari” e non ha perso – come poteva anche succedere – la sua base elettorale. Anzi ne ha rosicchiata a un alleato senza idee nuove e a una sinistra senza più nemmeno quelle vecchie. Ha intercettato insomma il sentiment prevalente nelle regioni del nord, ampliando anche il proprio bacino territoriale, con qualche puntata verso sud. Anche se, come ha detto il professor Roberto D’Alimonte, “votare Lega al sud non è ancora socialmente accettabile”.
Cambiare Dna a un partito e portarlo al di sopra dei consensi dei tempi d’oro è un fenomeno da interpretare. Ma per farlo bisogna prima provare a capire le ragioni della stabilità, in fase anzi di aumento, del voto del nord. Con alcune sue mutazioni. Senza questo, il risultato del 4 marzo può in effetti apparire sorprendente. I temi politici cari al nord, da decenni, sono sempre gli stessi, persino in ampi settori dell’elettorato di sinistra riformista. Meno pressione fiscale, più libertà di manovra per le imprese, tutela (e non castigo sospettoso) della piccola impresa, meno burocrazia e meno statalismo nei servizi. Vanno bene anche i privati, l’importante è che funzionino: vedi la Sanità. Nel tempo, si sono aggiunte la sicurezza e l’allarme per l’aumento dell’immigrazione. Temi che incrociano soprattutto il disagio dei ceti medio-bassi, impoveriti dalla crisi e che non vedono i dividendi dell’economia globale. Da qui gli slogan di facile presa contro la Fornero, contro il Jobs Act. Il mix di Salvini ha messo la sordina ad alcune cose – se Attilio Fontana e Luca Zaia porteranno a casa l’autonomia, bene, ma non è in cima all’agenda nazionale – e ha premuto l’acceleratore su altre, aggiornando gli slogan: la flat tax in chiave salviniana è nient’altro che il nuovo nome del “ridateci le nostre tasse”. L’antieuropeismo è un ulteriore imbarbarimento delle istanze “padroni a casa nostra” e del vecchio antistatalismo (il professor Bagnai: “La sinistra, orfana dell’impero sovietico, ha abbracciato l’Unione europea”).
Ci sono ovviamente altri – e più decisivi – elementi nel sentiment della società settentrionale: l’apertura sociale, l’economia internazionalizzata, il bisogno di innovazione e di modernizzazione. Temi con cui la Lega ha sempre avuto meno dimestichezza. La differenza oggi è che le classi sociali e imprenditoriali che più le avvertono non hanno trovato voci convincenti che le sapessero tradurre in proposte politiche mainstream. La sinistra un po’ ha convinto, ma ha presto disilluso (anche al di là dei suoi demeriti reali) e per il Pd il nord è tornato a essere terra ostile. Ma è forse soprattutto il moderatismo liberale incarnato a lungo da Forza Italia che si è dimostrato asfittico e poco credibile nei programmi. Così, se il sentimento generale del Nord più o meno è rimasto stabile, su di esso hanno fatto premio, in termini percentuali, il ri-sentimento e il senso di paura. In futuro chi ha altre visioni dovrà riorganizzarle. Ma ora spetta al lega-forzismo a guida Matteo Salvini dimostrare di saper interpretare, e per tutta l’Italia, i colori di cui il nord si è tinto.