Tre modi per difendere le democrazie liberali
La responsabilità delle élite e il dilemma tecnocratico. Parla Yascha Mounk, autore di "People vs Democracy"
Mi piange il cuore per l’Italia, dice Yascha Mounk, che nelle ultime settimane si è occupato di quel laboratorio di populismi che è diventato il nostro paese, con un occhio allarmato e l’altro attento a non cadere nei cliché delle analisi internazionali che ci riguardano. Mounk ha appena pubblicato “People vs Democracy”, un saggio di cui ci aveva già parlato a dicembre, ironizzando sul tempismo dell’uscita: il giorno successivo al voto italiano. Ora è in giro per gli Stati Uniti per presentare il saggio – che uscirà a maggio in Italia per Feltrinelli con il titolo “Popolo vs Democrazia. Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale” – e mentre parla con il Foglio gli vengono in mente esempi americani, inglesi, tedeschi, li intreccia con quelli che ci riguardano, perché l’Italia rappresenta un po’ la tempesta perfetta per le democrazie liberali: due populismi che vincono in un colpo solo, uno più antico dell’altro, ma entrambi radicati, in crescita.
Un caso da studiare da vicino per Mounk che proprio di questo si occupa, del deterioramento delle democrazie liberali, e di come fare a restaurarle, senza cadere nell’illusione della temporaneità – è un momento, poi passa – ma nemmeno nel piagnisteo sulla fine del mondo imminente. Quando molti intellettuali dicono – lo ha fatto ancora ieri Edward Luce su queste colonne – che l’establishment liberale non riesce a imparare nulla dalle lezioni che la realtà impone, lezioni brutali, Mounk aggiunge che spesso le élite sono responsabili di un “liberalismo non-democratico”, come può essere anche il rapporto con l’Unione europea. Per uscirne, è necessario “reinsegnare, reimparare l’importanza dei nostri sistemi politici”. Educarsi al liberalismo sembra una banalità – o un orrore per chi vede proprio nel liberalismo la radice dell’instabilità, dell’insofferenza, della protesta odierna – ma per Mounk è l’unica via per non credere di essere salvi se vince un Emmanuel Macron in Francia o se nel 2020 Donald Trump lascerà la Casa Bianca.
Mounk insiste sull’importanza dell’educazione civica, soprattutto per i giovani che sentono il richiamo dei movimenti di protesta perché non vedono più – in effetti spesso non c’è – una relazione tra le domande che fanno ai governi e le risposte che ottengono. Tutti i filosofi da sempre si interrogano su come “instillare la virtù politica nei più giovani”, George Washington nel 1796 chiedeva se esistesse qualcosa di più importante per una nazione del passaggio dei valori civici “ai futuri guardiani delle libertà del nostro paese”, e rispondeva di no. Non si trattava di un istinto soltanto americano, valeva per tutti i paesi che avevano nei secoli lottato per conquistare e difendere i propri diritti e la propria libertà. “Dopo una stagione senza precedenti di pace e prosperità – scrive Mounk – il sostegno per una consapevolezza civica da reinsegnare di continuo è evaporato, e ora s’è estinto”. Da qui però si può ripartire, “ogni cittadino può insegnare i valori liberali che caratterizzano il suo paese, può farlo con chiunque, figli, amici, genitori anche”, la difesa di una democrazia liberale si fonda prima di tutto sull’impegno personale, e sull’educazione.
Poi però bisogna uscire dalla propria sfera personale. Mounk da tempo studia – prendendo in considerazione molti paesi – il rapporto tra i giovani e la politica, per cercare di spiegare come abbia preso piede, a volte in modo travolgente, la tentazione di affidarsi a leader autoritari e illiberali: in “People vs Democracy” affronta passo per passo la questione, spiegando le differenze tra i vari leader (lo fa anche per Beppe Grillo in Italia) e dissezionando concetti spigolosi come il nazionalismo, nelle sue molte espressioni che buona parte del mondo liberale non comprende o liquida frettolosamente.
Le democrazie sviluppate – ha spiegato Mounk in un’intervista all’Atlantic – sono di fronte “a quello che io chiamo ‘dilemma tecnocratico’. Il mondo è diventato ben più complicato di quanto non fosse 50 anni fa. Le attività economiche accadono su scala globale. La tecnologia si evolve a un ritmo rapidissimo. Per essere efficaci, quasi tutte le democrazie hanno creato istituzioni sempre più tecnocratiche. Gli esperti ci dicono come regolare ogni cosa. Le agenzie sovranazionali introducono più regole dei Parlamenti. Le organizzazioni internazionali cercano di coordinare operazioni in stati diversi in zone in cui il mondo intero deve lavorare insieme. Ma presi tutti insieme, gli effetti di questi sviluppi hanno fatto sì che molti cittadini abbiano iniziato a pensare che il loro voto non avesse poi così tanto significato”. Molte élite ripetono che questo non è un problema, che finché le istituzioni funzionano e armonizzano e danno struttura al mondo non c’è da preoccuparsi. I populisti rispondono con soluzioni semplicistiche: aboliamo queste istituzioni, ridiamo potere alle persone, e ogni cosa tornerà al suo posto. “Questo è un vero dilemma – dice Mounk – perché nessuna delle due strade è del tutto convincente. Ma allo stesso tempo le persone si ritrovano davvero con meno potere”. Mentre spiega, Mounk ricorda che una volta un repubblicano americano gli ha raccontato che quando si trova a discutere dello stesso tema con un populista, lui ci mette tre frasi a spiegare la sua posizione, “al populista ne basta una sola e alla fine sembra che chi parla troppo in realtà non sappia cosa dire”. La potenza degli slogan semplici: ne sappiamo qualcosa.
Ma come se ne esce? “Oltre alla rieducazione civica – spiega Mounk – è necessario un rinnovo dei partiti moderati che non solo sono spesso stati sminuiti dalla corruzione o da altri problemi di questo tipo, ma continuano a mostrare una enorme mancanza di fantasia”. Una delle componenti principali di questa fantasia è il cambiamento, che è secondo Mounk il grande assente nelle prospettive dei partiti moderati: il cambiamento è stato intercettato dai populisti, che lo rendono estremo e spesso anche impraticabile, ma lo trasformano in un progetto “molto più forte dell’offerta di status quo che i partiti moderati insistono nel proporre”. Le democrazie liberali si difendono con un progresso che non cancella i fondamenti del liberalismo, ma che li attualizza, li rende più vicini alle persone, li fa diventare “rassicuranti”, in modo che nessuno si senta escluso, ma al contrario senta che il sistema investe sul suo senso di appartenenza e di immedesimazione nel mondo politico.
Anche l’ultimo, il terzo, elemento che Mounk individua come strumento di difesa dal populismo c’entra con il senso di appartenenza: è quel che lui chiama “patriottismo inclusivo”, una terza via tra “il nazionalismo che in molti paesi, come l’Italia, tende ad assomigliare alla xenofobia e alla restaurazione di vecchie ideologie come il fascismo” e “una negazione del patriottismo, come la politica di affidarsi soltanto alle istituzioni sovranazionali. E’ chiaro – dice Mounk – che un partito come quello di Emma Bonino che insiste sull’europeismo mi assomigli di più di un movimento nazionalista, ma anche in questa proposta c’è a mio avviso un errore. Essere, sentirsi italiani all’interno di una famiglia più grande com’è quella europea è molto importante”.
Poi resta il confronto con gli altri paesi, che è poi l’esperienza vissuta che per i più giovani non può più avere a che fare soltanto con le guerre, quelle combattute e quelle fredde. E’ importante che l’America dimostri di avere tutti gli anticorpi necessari per restare liberale e aperta anche con un presidente come Donald Trump, scrive Mounk, ma anche l’osservazione di paesi che prima erano più liberali e poi hanno ceduto a leader e a politiche illiberali, come Turchia e Russia, può essere utile: se vedi come va a finire quando il sistema politico si irrigidisce, rivaluti i vantaggi del liberalismo.