Silvio Berlusconi e Bettino Craxi

Craxi, il Cav. e i deIitti della Seconda Repubblica

Guido Vitiello

Gli ex Pci e l’ex sinistra Dc hanno danzato vent’anni sui cadaveri delle loro vittime. Ma come nel romanzo di Zola “Thérèse Raquin” la mummie hanno continuato a perseguitare i carnefici. Il 4 marzo la vittoria definitiva del Partito dei Magistrati

Cos’è stata, la Seconda Repubblica, se non una lunga variazione su “Thérèse Raquin”? Gli amanti Thérèse e Laurent si liberano dell’ostacolo alla loro unione illegittima, il marito Camille, affogandolo nella Senna. Ora potranno finalmente amarsi alla luce del sole. Ma il delitto è meno perfetto di quanto sembra. Più dell’amore, ormai, li tiene avvinti quel segreto mostruoso, un fantasma che li insegue fin nel talamo nuziale: “Gli assassini avevano voluto essere in due, la notte, per proteggersi dall’annegato”, scrive Zola, “e per uno strano effetto rabbrividivano di più da quando si trovavano insieme”. La vita coniugale è un inferno. Thérèse e Laurent spasimano d’angoscia, si guardano con sospetto, lanciano recriminazioni reciproche, arrivano a odiarsi al punto da volersi uccidere l’un l’altra. Il lettore avrà già decrittato da sé l’allegoria. Camille Raquin, l’annegato, è Bettino Craxi. L’amore adulterino finalmente consacrato è quello tra le due famiglie di superstiti del compromesso storico graziati dalle procure, i post-berlingueriani e la sinistra democristiana. Le convulsioni successive del Pd, fino al climax melodrammatico di questi giorni, derivano dall’essersi stesi nel letto coniugale senza aver fatto i conti con il fantasma dell’annegato. Perché con Craxi colava a picco non solo il socialismo liberale; s’inabissava, in un fiume fangoso, anche la residua dignità dei poteri elettivi, o diciamo pure la dignità della politica.

 

Cos’è veramente successo, il 4 marzo 2018? Qui comincia un’altra storia, non meno romanzesca; solo che prende sfumature da gotico vittoriano. Pochi giorni prima del voto, l’Espresso pubblica una conversazione tra Marco Belpoliti e Sergio Luzzatto sui corpi dei capi. “Berlusconi è tornato, sotto forma di una mummia. Un revenant, totalmente rifatto nel viso e nei capelli”, esordisce Belpoliti. E’ un motivo ricorrente della campagna elettorale, e forse anche un’esca per l’interlocutore, che a un altro caso di tassidermia politica, quello di Mazzini imbalsamato, aveva dedicato il libro “La mummia della Repubblica”. Già, ma di quale Repubblica era mummia Berlusconi? Della Seconda, sembrano implicare i due dialoganti; io sospetto lo fosse anche della Prima; o, se vogliamo, un revenant dell’annegato. Davanti all’assedio ai poteri elettivi lanciato nel 1992, all’antiparlamentarismo mediatico-giudiziario che avrebbe partorito il mostro dello squadrismo digitale grillino, Berlusconi era stato – con la sua mera presenza, senza vera coscienza o volontà politica – un argine; ma, non avendo ripristinato gli argini istituzionali (immunità e riforma della magistratura), era rimasto un argine simbolico, destinato a estinguersi insieme al suo corpo biologico, o a sopravvivere come feticcio ineleggibile: la mummia della Repubblica.

 

Cambio di scena. Giovedì 1 marzo Steve Bannon atterra a Roma. Vuole godersi la grande onda dall’epicentro. Capisce d’istinto quel che sfugge a molti osservatori indigeni, ossia che ancora una volta siamo un’avanguardia: “Gli italiani sono andati più in là, e in un tempo più breve, degli inglesi con Brexit e degli americani con Trump”. Più che in un tempo più breve, si dovrebbe dire in due tempi. Perché un’onda può essere anche planetaria, ma la natura e la misura delle sue devastazioni dipendono dalle resistenze che incontra nei diversi luoghi. Qui tutto era pronto per l’onda perfetta: l’annegamento delle élite politiche a beneficio di altre élite, le solite, che oggi giocano alle levatrici del governo Di Maio. Anche stavolta, tuttavia, il delitto è meno perfetto di quanto sembra. Ricordate Zola? La vecchia signora Raquin, madre dell’annegato, scopre il crimine segreto; vorrebbe denunciarlo, ma è muta. Noi per fortuna abbiamo un loquace novantunenne di nome Mauro Mellini. E’ l’unico ad aver scritto la verità sul 4 marzo, e sull’agonia ventennale che ha solo ritardato, fino al colpo di grazia, un delitto già perpetrato nel 1992: “Non abbiamo sentito parlare nella campagna elettorale del Partito dei Magistrati. Eppure la distruzione della classe politica di cui oggi si celebra l’indiscutibile consumazione è la sua vittoria”.