Perché Di Maio non può evitare di fare i conti con la storia
La storia umana rientra sempre in gioco e si rivela nel linguaggio, dove spesso è custodita
Una delle caratteristiche curiose dei discorsi pentastellati a partire dalla notte di domenica è la fretta di far I conti con la storia. “Storico” è stato l’aggettivo più utilizzato fin dai primi commenti in diretta di Alfonso Bonafede. E Di Maio nei suoi discorsi come nella sua lettera agli elettori si è affrettato a dire che comincia la Terza Repubblica, che rappresenterà un taglio netto con il passato e che ci farà entrare in un’era post-ideologica, l’era della Repubblica dei cittadini.
Sorvoliamo sulla piccola contraddizione che nel suo messaggio Di Maio fa seguire a questa roboante affermazione quella sulla necessaria umiltà dei politici della nuova era. In effetti, che la vittoria di partito dei M5S sia un evento notevole della recente storia italiana non è in dubbio. Come non è in dubbio che Di Maio abbia ragione quando dice che non si è trattato semplicemente di un voto di protesta. Come qualche acuto commentatore ha notato, si tratta di un voto che ha ridisegnato il bipolarismo italiano, a mio avviso semplicemente in una chiave più popolare. Stufi di una classe dirigente europea piena di parole altisonanti, atteggiamenti da statista e ricette tanto pesanti quanto per ora inefficaci per la vita quotidiana, gli italiani hanno ridefinito nell’urna una piattaforma di senso comune che deve valere per tutti: la globalizzazione estrema è un pericolo come lo è l’immigrazione non sostenibile; i soldi e il lavoro, a discapito di tutte le ricette, non bastano; la bella retorica educata non è un valore se non è seguita da fatti adeguati.
A partire da qui, però, le strade dei due gruppi vincitori si sono separate, proponendo soluzioni molto diverse ed è qui che la fretta di chiudere i conti con la storia non funziona. La storia umana rientra sempre in gioco e si rivela nel linguaggio, dove spesso è custodita. Ciascuno nelle parole “tradisce” un significato anche quando non lo dice o non ne è cosciente. Così, nei suoi messaggi trionfali, prima ancora che nelle sue ricette economiche, Di Maio rivela tutto il retaggio culturale di quell’epoca ideologica che ritiene terminata. La repubblica da lui immaginata sarà quella dei “cittadini”. Poteva dire quella del “popolo” o delle “persone” e avrebbe indicato altre genesi e altri fini. Così come il movimento poteva chiamare la propria piattaforma “Hume” o “Tommaso Moro”. “Rousseau” indica un programma preciso di disintermediazione tra individuo e potere, così come il termine giacobino di “cittadino” indica una soluzione radicale anche politica.
Si potrebbe continuare a lungo sulla storia delle parole, a partire dal mantra dell’onestà, anch’essa giacobina. Così come si potrebbe avvisare Di Maio che la teoria dell’epoca della fine delle ideologie è stata proclamata molte volte negli ultimi trent’anni in diverse parti del mondo. Ci credevano tanti teorici americani che stavano dietro ai Clinton e ai Bush ed è stato uno dei cavalli di battaglia di molti seguaci del tanto odiato Renzi.
Tuttavia, il risultato è che non è facile liberarsi della storia filosofico-politica degli ultimi secoli. I partiti passano ma le diversità delle intuizioni del mondo rimangono, tanto che hanno resistito a un paio di guerre mondiali, eventi un po’ più influenti di un normale voto democratico. Sono diversità di accenti antropologici ed esistenziali prima ancora che economici. Il caso, molto simile al nostro, del successo di Sanders e Trump negli Stati Uniti dovrebbe far pensare a quanto queste diversità siano insite nel mondo occidentale e quanto a esse si ritorni a dispetto di ogni intenzione o dichiarazione. Per superarle davvero non basta un voto, ci vorrebbe un rovesciamento del sistema democratico, come è avvenuto e avviene in Cina, ora nella forma del pensiero unico e illuminato del suo premier a vita, ma sinceramente non vedo perché uno dovrebbe augurarselo.