Giancarlo Giorgetti (foto LaPresse)

I silenzi e le parole di Giorgetti, volto presentabile della Lega

Cristina Giudici

Regista politico e consigliere fidato di Salvini, cauto sull’Italexit, frequenta i banchieri, è candidato a quasi tutto

Milano. “Sono più importanti i suoi silenzi che le sue parole”, dicono di lui, unanimi, i colonnelli leghisti della prima ora. Tanto che vederlo apparire nel salotto di Vespa il giorno dopo il voto del 4 marzo (e da allora è diventato quasi un prezzemolino, come era prevedibile) ha stupito molti. Non andava praticamente mai in televisione, prima, non è un volto noto al pubblico. Giancarlo Giorgetti lo chiamano non a caso il Gianni Letta della Lega, un garante di rapporti ed equilibri che ha sempre preferito stare dietro le quinte. Schivo, riservato, in vita sua ha rilasciato anche poche interviste. Perciò la sua esposizione per commentare la vittoria storica della Lega di Matteo Salvini è stata interpretata come una sorta di rassicurazione istituzionale. Il leghista in giacca (la cravatta non l’aveva, l’aria di chi ha lavorato duro tutta la giornata) a garantire per quello con la felpa. Ed è stato lui, a urne ancora aperte, a presentarsi ai giornalisti nel quartiere generale di via Bellerio per commentare l’avanzata leghista. Giancarlo Giorgetti è il volto istituzionale di una Lega che non deve spaventare, se vuole governare. Infatti ora più che mai è il politico che tutti cercano per capire quali saranno le prossime mosse del partito in questa fase di stallo. Ex delfino di Bossi, da molti anni è l’eminenza grigia, il regista politico, il consigliori fidato e riservato della Lega. Ha cominciato alla fine degli anni Novanta, sindaco di un piccolo comune del varesotto, Cazzago Brabbia. Da allora non c’è stato un solo momento nella sua carriera politica in cui abbia arretrato. Non a caso tutti parlano di lui come possibile futuro presidente della Camera, e persino come la faccia tranquilla di una Lega che possa ambire a esprimere il premier, anche se pare che lui, per ora, non ne abbia alcuna intenzione e preferisca restare nel backstage. Bocconiano, 51 anni, è entrato per la prima volta a Montecitorio nel 1996 e da allora è passato indenne attraverso ogni mutamento e guerra intestina della Lega. Dentro e fuori il Cerchio magico del Senatùr. Dentro e fuori dalla protesta dei “barbari sognanti” guidati da Bobo Maroni che scalzarono Bossi e la vecchia guardia dalla guida del partito. E oggi borderline, ma al contempo insostituibile, anche nel “cerchio blu” del segretario federale Matteo Salvini, di cui è vicesegretario. Affidabile, presente. Del resto fu proprio lui fra i primi ad arrivare all’ospedale, quando Umberto Bossi venne colpito da un ictus cerebrale il 14 marzo del 2004. E fu lui, probabilmente, a suggerire quel messaggio registrato per i militanti sgomenti nel giugno dello stesso anno – quando per la prima volta a nessun leghista fu possibile inzupparsi i piedi nel Sacro Prato fangoso di Pontida – in cui il il Grande Malato biascicò: “Sto abbastanza bene perché non sono morto, ma era meglio non avere questa cosa qui, con i dolori collegati. Andate a votare. Vi saluto con tanta simpatia ed amicizia”. E fu sempre Giorgetti, pochi mesi dopo il crollo fisico di Bossi, a parlare in suo nome. Alla vigilia delle elezioni amministrative ed europee, in un’intervista a Stefania Piazzo per il settimanale Federalismo spiegò che cosa si aspettava dalle elezioni imminenti. Al riguardo di una ventilata candidatura di Montezemolo, allora presidente di Confindustria, sentenziò al posto del Capo, riportando quello che avrebbe detto lui: “Montezemolo rappresenta un coacervo di interessi che fanno capo alla finanza massonica, ma anche a quella di sinistra, ai Bazoli per intenderci”. Preistoria, certo, ma utile a comprendere il filo rosso del suo pensiero e la cifra della sua personalità politica.

 

Ex delfino di Bossi, è il politico che tutti cercano per capire quali saranno le prossime mosse del partito in questa fase di stallo

In realtà Giancarlo Giorgetti ha confidato solo recentemente in una delle poche interviste rilasciate che per lui la politica è sacrificio e al contempo una malattia. “Un atto di presunzione che ti fa credere che le cose che pensi e che fai tu facciano bene anche agli altri”, ha raccontato alla fine di febbraio a Varesenews. Una confidenza che sembra contraddire la sua figura algida di ragionatore freddo dentro le passionalità della Lega. Abituato, dopo 5 legislature e 10 anni alla guida della Lega Lombarda, dal 2002 al 2012, a frequentare il ceto politico e i salotti finanziari. Ma senza cedere alle sirene della mondanità romana, che non è roba sua. Ha un filo diretto con Giorgio Napolitano che lo volle nel comitato dei saggi per le riforme, e in queste ore difficili anche con il presidente Sergio Mattarella. Al look pop di Salvini contrappone la grisaglia, ma è stato lui, nella Lega, a sostenere la corsa di Salvini per vincere la sfida nel centrodestra. “Lui c’è sempre, ma contemporaneamente è altrove”, ironizza un altro degli ex colonnelli leghisti, quelli messi a riposo da Matteo, per alludere alle ramificazioni della sua rete di relazioni politiche ed economiche. Estimatore, corrisposto, di Mario Draghi, coltiva Oltretevere frequentazioni negli ambienti più tradizionalisti del Vaticano. E’ insomma il leghista anomalo, mai celodurista, come si diceva ai tempi del Senatùr, che non indossa magliette verdi e invece frequenta i consessi dell’Aspen Institute, di cui è diventato socio grazie a Giulio Tremonti. Laureato in Economia, diventato commercialista, è stato capogruppo della Lega Nord a Montecitorio e nel partito si è sempre occupato di numeri e conti. Presidente della Commissione speciale incaricata anche di esaminare la variazione di bilancio del governo Monti per sbloccare circa 20 miliardi di debiti della Pubblica amministrazione nei confronti delle imprese. Dal 2001 al 2006, durante il governo di Silvio Berlusconi, è stato il presidente della Commissione Bilancio. Dal 2002 al 2012 segretario nazionale della Lega Lombarda. Senza mai imporsi, però, mano ferma e guanto di velluto, è sempre stato, con Roberto Calderoli e Bobo Maroni, una figura adatta a mediare con le istituzioni. Nel 2013, dopo le infruttuose consultazioni per la formazione di un governo, Napolitano lo chiamò a far parte del gruppo ristretto, il “comitato dei saggi”, incaricati di preparare le riforme.

 

I militanti della tumultuosa base lo hanno sempre vissuto un po’ come un corpo estraneo. I leghisti, è noto, sono sempre stati complottisti fino alla paranoia, molto tempo prima che fosse in voga il complottismo anche più folcloristico e virale dei grillini. Forse anche per questo la base del movimento, soprattutto quella meno alfabetizzata, lo ha sempre considerato con diffidenza: non è un uomo del popolo, tantomeno delle valli. Ai tempi del Bossi, dei secessionisti duri e puri, c’è chi lo vedeva come un economista più affine al mefistofelico club Bilderberg che al popolo del Carroccio. Solo perché sapeva parlare il linguaggio dell’economia e si trovava a proprio agio a discutere con i banchieri. In realtà Gianca, come viene chiamato da amici e fratelli padani – padre pescatore, madre operaia in un’azienda tessile, laurea con lode con una tesi sugli stadi di Italia 90 per analizzare appalti e sprechi – è semplicemente un uomo di ragionamento e di backstage. Uno che conosce bene le leggi del libero mercato e ha un cugino che di cognome fa Massimo Ponzellini, banchiere e per molto tempo uomo di fiducia di Bossi nel mondo del credito e delle imprese. I suoi detrattori lo chiamano il “tappo”. E non perché sia basso, ma perché ogni volta che la Lega cambia corso (o leader) lui si trova al posto giusto per guidare il partito senza farlo sbandare troppo. La sua sedia ha traballato solo durante il congresso provinciale a Varese, nel 2011, quando si è trovato nella scomoda posizione di tentare una ricucitura tra la militanza arrabbiata e le decisioni del Cerchio magico ed è stato accusato da Bossi di essere causa dei malumori.

 

Pontiere e pompiere

 

E’ nato a Cazzago, comune di 700 abitanti sul lago di Varese dove la metà degli abitanti hanno il suo stesso cognome. “Da sindaco di una lista civica – ha raccontato – mi sono ritrovato nella Lega quasi senza accorgermene”. Hanno ragione quelli che dicono che lui c’è, ma è sempre altrove, perché è capace di sparire per giorni, senza dare sue notizie. Investito ai suoi esordi ufficialmente da Umberto Bossi con queste parole: “Il futuro è dei giovani come Giorgetti, ma non diciamolo troppo forte perché sennò si monta la testa”. Ha traghettato la Lega di Bossi, post ramazze, verso quella di Maroni con cui ha avuto però qualche controversia, e frequenta i simposi dell’associazione Terra Insubre, suolo fertile per dibattiti sovranisti. Quando il gioco si fa duro, nel partito, ci si rivolge a lui, pontiere e pompiere allo stesso tempo. “La sua forza è però il suo limite”, concordano alcuni dirigenti della Lega che abbiamo interpellato. “Giorgetti non è un decisionista, riflette a lungo, elabora molto prima di prendere una posizione, ma questa dote può diventare un handicap in una fase politica in cui gli scenari durano quanto un battito di ciglia”, è un altro giudizio. Nel giugno 2012, dopo aver traghettato il partito dalla crisi del Cerchio magico alla nuova gestione, nel congresso della Lega Lombarda che nominò segretario federale Roberto Maroni, usò queste parole, che contenevano già i germi del cambiamento di pelle che sarebbe iniziato di lì a poco: “L’esperienza di governo a vari livelli non ha prodotto i risultati che ci aspettavamo (il federalismo) ma soprattutto ha cambiato i leghisti”. Non una sconfessione, non una semplice autocritica, ma la lucida intuizione politica di una fase storica mutata e di una mutazione genetica ormai in corso nel mondo padano.

 

Ha un filo diretto con Giorgio Napolitano, che lo volle nel comitato dei saggi per le riforme, e in queste ore difficili anche con Sergio Mattarella

Di lì a poco, sarebbe stato tra gli uomini più ascoltati da Salvini, uomo di baricentro e di memoria storica. Politico abile, perfettamente resiliente ai tradizionali agenti corrosivi della politica. Oltre alla politica, la sua passione è per due squadre di calcio: il Varese (andava perfino in ritiro estivo con i calciatori) e l’inglese Southampton (ha fondato il fan club italiano). Chissà se è vero che il segretario federale ogni tanto sfugge al suo controllo, in effetti Matteo Salvini ha raggiunto il record storico della Lega perché fa sempre di testa sua, inseguendo il suo istinto. Proprio come faceva Bossi. Ma una cosa è certa: il Capitano, come viene chiamato il segretario federale, si affida a Giorgetti completamente, ma non ciecamente, soprattutto per le trattative nei palazzi. E Infatti Giancarlo Giorgetti ha cercato di smussare i toni eurofobici già nel programma elettorale della Lega, “La Rivoluzione del buonsenso”, in cui viene dedicato solo un generico e breve paragrafo al tema dell’uscita dalla moneta unica perché il suo obiettivo è quello di dare alla Lega una patina di affidabilità sia in Italia sia a Bruxelles. E non è un caso che sia stato spedito lui a Londra per rassicurare gli investitori della City circa le idee della Lega euroscettica (anche se nel frattempo Salvini continua a mandare segnali in Europa a proposito dell’Italexit del tipo “i nostri esperti stanno lavorando a un piano B”).

 

Nella scorsa legislatura ha ricoperto il ruolo di vicepresidente della commissione Affari esteri della Camera ed è stato membro della delegazione parlamentare italiana alla Nato. E’ lui che ora tiene i rapporti e fa “l’ufficiale di collegamento con Forza Italia”, dopo che sono finite le famose cene del lunedì ad Arcore. Tenuto in massima considerazione per la sua capacità quasi rabdomantica di prevedere i capricciosi riassestamenti del potere, non è che le abbia sempre azzeccate tutte però. In una delle sue rare interviste c’è anche quella concessa al settimanale Tempi nel settembre scorso in cui aveva affermato: “Il sentimento che si sente in giro, tra la gente, molto più di quello che è intercettato dai media e dai sondaggi, è un forte vento di protesta che sta virando più verso il centrodestra che verso i 5 stelle. Non escludo affatto, anzi pronostico, una larga vittoria del centrodestra che ci porterà direttamente al governo con qualsiasi legge elettorale”, ha azzardato. Nella più recente intervista data a Varesenews il 24 febbraio però aveva saggiamente preso in considerazione un governo di responsabili. “Lo abbiamo già visto in diverse situazioni come all’inizio dell’ultima legislatura: un gruppetto di ‘responsabili’ si troverebbero”, aveva dichiarato. Nella campagna elettorale per le elezioni politiche del 2008 è rimasto famoso il suo “discorso della finestra”. Convinto che per la storia della Lega Nord e della Padania si stesse aprendo una finestra su un futuro fatto di federalismo, indipendenza e libertà. Promessa tradita, da cui è uscito indenne anche quella volta, molti anni prima di diventare l’uomo ombra di un Salvini che dell’indipendenza non sa che farsene. E ora, in questa fase di mazzi di carte da mischiare e distribuire e poi rimischiare, si augura una soluzione transitoria. Ossia un governo di scopo per realizzare la legge elettorale. Pochi giorni fa, durante la prima riunione di tutti i neoparlamentari a Milano, sembrava rilassato, confidente, persino sorridente. E se venisse eletto davvero presidente della Camera, potrebbe rientrare di nuovo dentro le stanze del potere da cui del resto non sembra essere mai uscito.

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