Autopsia dei caduti elettorali
Il paradosso di un Parlamento pieno di professionisti e dilettanti
Paesaggio dopo la battaglia elettorale: c’è da fare un primo inventario delle perdite, spazzar via le macerie, contare i cadaveri, soccorrere rapidamente i feriti e i mutilati. Quante roccaforti abbiamo perduto, quanti soldati delle nostre liste sono stati falciati dalla mitraglia popolare, quanti generali felloni bisogna processare e fucilare, quante truppe passeranno domani al nemico? Si procede grossolanamente, alla vien viene, per fosse comuni o pire funerarie allestite sul posto, com’è sempre in guerra. Ed è un peccato che sia così; perché se in mezzo a quella distesa di cadaveri ci fosse tempo e pazienza anche solo per qualche autopsia a campione, scommetto che un coroner ben addestrato saprebbe riconoscere in un lampo cosa accomuna i combattenti, vincitori e vinti, e cosa ha reso così inutilmente cruenta la battaglia: l’atrofia irrimediabile o la totale assenza (congenita, in molti casi; per asportazione chirurgica, in altri) di quella parte del cervello, qualunque essa sia, che presiede al modo di ragionare propriamente politico. Sta qui il vero trionfo, inavvertito e silenzioso, di quell’impresa per il resto molto chiassosa che ci attardiamo a chiamare antipolitica – e tanto ci abbiamo picchiettato, su quella parola, che dà ormai un rintocco fesso, pari solo alla fessaggine degli invasori da cui avrebbe dovuto metterci in guardia.
Non che si parli poco di politica; semmai, si parla poco politicamente: è un’arte che stiamo dimenticando con una rapidità e una noncuranza allarmanti. Perché il progressivo richiudersi di quello spazio mentale duttile e sottile, strozzato tra i fanatismi incrociati, i risentimenti cocciuti e le ossessioni più varie, avrà conseguenze ben più gravi dell’esito della guerra, ossia la sconfitta dell’una o dell’altra fazione parlamentare. Ma se è vero che le campagne elettorali sono quasi tutte piuttosto avvilenti, è vero anche che sono tutte rivelatrici di uno stato di cose: e quest’ultima è stata dall’inizio alla fine un patetico cozzare di argomentazioni pre-politiche, post-politiche, extra-politiche, para-politiche e ipo-politiche. Chi più ne ha sofferto, chi più si è sentito spaesato in questo serraglio, sono gli ultimi esemplari, nel bene o nel male, delle tradizioni politiche superstiti (una scenetta da appuntare per i posteri: la faccia mortificata del povero Casini costretto a rispondere, al Piccolo Teatro Gruber, ai sarcasmi puerili di non ricordo più quale nano o ballerina del Fatto Quotidiano). Al computo delle perdite dovremo aggiungere il senno di quegli intellettuali pubblici, politologi, opinionisti e accademici di vario rango – alcuni prestigiosi, o perfino emeriti – che nell’ansia di apprendere la lingua rude dei nuovi barbari hanno finito per disimparare la propria, e che messi davanti alle sottigliezze di un ragionamento politico complesso ti lanciano ormai occhiate da “Graecum est, non legitur”. Alcuni si vanno istupidendo per calcolo o per interesse, altri per dispetto, altri ancora per inseguire qualche inestirpabile idea fissa, una monomania – economica, giudiziaria o d’altro genere – per la quale sarebbero disposti a veder perire il mondo. E così, insieme al professionismo della politica, ne andiamo perdendo anche il dilettantismo nel senso più nobile, quello di un eclettismo curioso e tollerante. In cambio – bel paradosso, o bella nemesi – tutto quel che abbiamo ottenuto è un Parlamento zeppo come non mai di professionisti e dilettanti della politica – entrambe le cose nel senso più ignobile.