Una legislatura in tredici
Galleria dei protagonisti e comprimari della crisi politica più pazza della storia repubblicana
Il regista silente
iTredici attori protagonisti e comprimari si alternano sul palcoscenico della politica italiana, roteando, in una danza incerta e confusa, attorno al silenzio imperscrutabile del regista, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. E’ un caos che allude alla nascita di qualcosa o alla fine di tutto. Ecco le tredici aspirazioni, le tredici personalità da cui Mattarella dovrà tirar fuori una maggioranza e un governo.
Luigi Di Maio, rischia tutto
È il vincitore che rischia tutto, Luigi Di Maio. Eroe virtuale, leader senza partito, fin qui per lui è stato tutto facile e in discesa, ma adesso deve misurarsi con la politica vera. Fin qui ha avuto in regalo un canovaccio di slogan da recitare a soggetto in televisione, e poi delle primarie vinte senza concorrenti. Non si è certo conquistato il posto di capo politico indossando il vestito blu dell’Upim e la cravatta di Tecnocasa e non ha certo vinto lui le elezioni, perché quel mastodontico 32 per cento sarebbe andato a chiunque avesse guidato il M5s. Condannato dunque con data di scadenza dalla regola del doppio mandato, sconfitto dopo aver tentato di manovrare il palazzo, Di Maio adesso o vince tutto o si spelacchia. Di sicuro non ha davanti se né Andreotti né Moro, però ha a che fare con gente, come Silvio Berlusconi, Gianni Letta e Giancarlo Giorgetti che la verginità politica l’hanno persa da un pezzo.
Matteo Renzi, protagonista assente
Matteo Renzi dov’è? Alla Camera e al Senato se lo chiedono tutti i parlamentari del Pd, da circa una settimana. La sua è un’assenza che incombe. E allora appena in Transatlantico viene individuato il renziano (e fiorentino) David Ermini, è subito una pioggia di domande: “Ma viene a Roma, o no? “E partecipa alla riunione dei parlamentari, o no?”. “Ma almeno il presidente del Senato lo andrà a votare?”. E chi lo sa. Renzi è più protagonista quando non c’è di quando c’è. Con la sua assenza, l’ex segretario vuole comunicare a tutti un’immagine e un’idea: sono fuori, e sono contro. Contro gli inciuci, contro i caminetti, contro il correntismo, contro gli accordi di nomenclatura che si stanno siglando in queste ore dentro e fuori dal Pd. “Non mi interessa nulla”. Ovviamente non è vero niente. Passa le giornate al telefono, sta blindando con Dario Franceschini l’elezione dei nuovi capigruppo, Lorenzo Guerini alla Camera e Andrea Marcucci al Senato, e certi giorni parla più telefono con Gianni Letta che con il suo amico Luca Lotti.
Matteo Salvini zen
Viene da lontano, ci ha messo vent’anni per diventare segretario della Lega, e adesso non ha fretta. Il tempo non è un suo avversario. Matteo Salvini sta giocando un gioco che non aveva mai giocato, ma ha la fortuna di poter contare – a differenza di Luigi Di Maio – su un consigliere e navigatore scafatissimo come Giancarlo Giorgetti. Chiusa la campagna elettorale si è tolto la felpa e ha riposto in garage la ruspa. E adesso, nel caos degli incontri con gli altri partiti, tra le mille suggestioni, nel ribollire delle ipotesi che sembrano non portare ancora a niente, affronta le sue giornate senza ansia e senza reali preoccupazioni. Se gli riesce di costruire una maggioranza, è un successo storico. Se al contrario non gli dovesse riuscire, ci sono sempre le elezioni, un partito saldo nelle sue mani e la prospettiva di consolidare il suo primato su tutta la destra italiana, compreso il partito di Silvio Berlusconi.
Giancarlo Giorgetti, il marinaio della Lega
Alla Camera e al Senato adesso i gruppi parlamentari sono collegati da un dedalo di strade, di passaggi e di sentieri sottomarini: una terra di avventure per Giancarlo Giorgetti, il marinaio della Lega. E’ il momento di quest’uomo della cui esistenza ci si accorge (a mala pena) soltanto nei momenti di passaggio e di crisi, quando cioè non è richiesta una fede, una vocazione, un’idea divorante, ma una trama immateriale di interessi e di relazioni, sinuosa, incolore, pervasiva, discreta, trasversale, e mai pungolata dall’esibizionismo. Matteo Salvini lascia fare tutto a lui, e c’è da ritenere che Luigi Di Maio, ogni volta che lo incontra, pensi in cuor suo: “Ce l’avessi pure io uno così”. E invece si deve accontentare di Danilo Toninelli, che equivale a far tutto da soli. Tocca a Giorgetti, dunque, e allora niente più ruspe, niente più felpe, basta con le sparate su Facebook e su Twitter. Da vent’anni Giorgetti, solido leghista di Varese, versione pragmatica di Salvini, amministratore delegato del partito ex padano, trova convergenze dove ci sono divaricazioni. Con lui il potere politico valica il confine della propria solitudine partigiana e si adatta, in una sofistica contrattualità di rapporti, alla convivenza.
Gianni Letta, genio sabotatore
Adesso persino quelli che non lo hanno mai troppo amato dentro Forza Italia parlano benissimo di Gianni Letta, e non solo perché quasi a tutti sta antipatico l’onorevole e avvocato Niccolò Ghedini, nuovo cerbero di Arcore e teorico di una linea politica (“seguiamo Salvini”) osteggiata dall’intelligenza felpata di Letta. Mercoledì il vecchio Gran Ciambellano del berlusconismo, Letta appunto, ha avuto un colpo di genio degno dei tempi d’oro: “Dobbiamo fare un comunicato e invitare Di Maio a Palazzo Grazioli per discutere dell’elezione dei presidenti delle Camere”. Detto fatto. Una chiara operazione di sabotaggio. Applausi a scena aperta. Come dice un vecchio berlusconiano di solito critico con Letta: “Sarà consociativo, dal mio punto di vista in passato ha messo talvolta Berlusconi nei guai, ma è una straordinaria risorsa. Guardati intorno. Guarda il deserto che abbiamo. E poi guarda Letta”. E Letta invece dove guarda? Guarda verso Sergio Mattarella, e verso quello che verrà quando tutti i tentativi di Salvini e Di Maio avranno fallito.
Dibba, l’alter ego
Gli scrivono lettere e gli intasano i social: “Dibba fermali tu”, perché Luigi Di Maio, orrore, parla con la destra di Matteo Salvini e di Silvio Berlusconi. Ed è infatti percepito così Alessandro Di Battista, l’alter ego e l’alternativa a Di Maio, il suo polo opposto: se quello fallisce, com’è possibile, allora tocca a lui al prossimo giro. E infatti, come Beppe Grillo, anche Dibba ha fatto il passo indietro, o di lato, è fuori ma è anche dentro. Martedì passeggiava in Transatlantico, mano nella mano con la compagna Sahra, spingendo il passeggino con suo figlio Andrea, e spargendo sorrisi, raccontando sogni e visioni, speranze rivoluzionarie. Prepara un documentario tratto dai suoi diari sudamericani, si gode il successo anche economico dell’ultimo libro pubblicato da Rizzoli, annuncia a tutti che presto partirà per un lungo viaggio, il più lontano possibile dall’Italia, dalla politica e dal Parlamento che non trova una maggioranza. Eppure, quanto più Dibba si allontana, tanto più l’impressione è che al contrario sia vicino, proprio lì, alle spalle di Di Maio.
Niccolò Ghedini, assistente e regista nell'ombra
L’onorevole e avvocato Niccolò Ghedini è diventato l’architetto di retrovia delle operazioni berlusconiane, il facitore delle liste elettorali, l’uomo che tiene in mano l’agenda del Sultano, che consente (o nega) l’accesso allo studio di Arcore. Condensa in un unico, allampanato corpo due figure stereotipiche e classiche del berlusconismo: quella dell’assistente e quella del regista nell’ombra. Uomo di destra vera, più di quanto non sembri, in questa fase Ghedini è il più salviniano dei forzisti, assieme al presidente della Liguria Giovanni Toti. E se da un paio di giorni il Cavaliere si è fatto pure lui, e sorprendentemente, salviniano come mai prima – “Matteo è proprio bravo” “dobbiamo fidarci di Matteo” “ascoltate quello che Matteo ha da dire” – pare che lo si debba anche ai consigli e all’influsso di Ghedini, unico ad avere pure una stanza sua a Palazzo Grazioli. E allora se la Lega tiora verso Di Maio, anche Ghedini tira verso Di Maio. Solo che di tutta questa operazione è poco persuaso il vecchio Gianni Letta, che ieri è riuscito a far saltare tutto per aria concordando con Berlusconi un semplice comunicato: “Caro Di Maio sei invitato a discutere l’elezione dei presidenti dei Camera e Senato a Palazzo Grazioli”.
Dario Franceschini, acrobata indispensabile
Con una mano tiene il telefono con il quale parla a Matteo Renzi, con l’altra quello che lo collega a Maurizio Martina, ad Andrea Orlando e gli altri avversari di Renzi dentro il Pd. Poi parla con il suo vecchio amico Sergio Mattarella, e sonda Gianni Letta. In questa fase Dario Franceschini è proteiforme, acrobatico e insieme indispensabile. Rassicura Renzi, stringe con lui accordi sull’elezione dei nuovi capigruppo del Pd, ma subito dopo rassicura anche i capi delle correnti minoritarie, e con loro descrive nell’aria il profilo di quella triangolazione di governo con i cinque stelle che Renzi vede come un pericolo. E allora mentre l’accordo tra centrodestra e M5s forse si fa o forse salta, è suo il nome che viene improvvisamente tirato fuori – da lui stesso ovviamente – per la presidenza della Camera. Nel caos chi potrà mai tenere insieme la trama del presidente della Repubblica e presidiare la pace domestica? Potenza strisciante, getto vegetale di antica pianta democristiana, Franceschini è l’uomo rifugio della legislatura pazza.
Giorgia Meloni, alla riscossa
Le è quasi andato un boccone di traverso l’altra sera a casa di Silvio Berlusconi, a Palazzo Grazioli, quando ha sentito il Cavaliere rivolgersi a Matteo Salvini, che insisteva su un’ipotesi di accordo tra il centrodestra e i cinque stelle, con queste parole: “Di Maio è giovane… perché no”. E allora, uscita da lì, ha cominciato a spiegare a tutti, amici, conoscenti e giornalisti, che “mai e poi mai con Di Maio”, piuttosto lasciamo la coalizione. Ma che Salvini faccia un accordo con Di Maio e magari ci vada pure al governo è un’ipotesi che a Giorgia Meloni in realtà non dispiace affatto. Perché lei subisce la concorrenza elettorale di Salvini, che le ha mangiato almeno due punti percentuali alle ultime elezioni e ha persino intaccato il suo feudo romano sottraendole voti e personale politico. Se Salvini andasse al governo, e per giunta con Di Maio, dovendosi accollare decisioni e mediazioni, quale migliore occasione per riaprire a proprio vantaggio – dall’opposizione – la gara a chi è più sovranista e di destra? Una riscossa, e una piccola vendetta.
Paolo Romani, un uomo dell’azienda
Paolo Romani presidente del Senato sarebbe una vittoria di Silvio Berlusconi nella vittoria dei Cinque stelle. Capogruppo uscente a Palazzo Madama, lui è un uomo dell’azienda, viene da una carriera interna alla televisione commerciale e vederlo assiso sullo scranno più alto del Senato, osservarlo diventare seconda carica dello stato, nel momento storicamente più basso del consenso di Forza Italia, è per il Cavaliere una soddisfazione e persino una rivincita sul mondo avverso dei numeri elettorali. Capace di muoversi benissimo e di coltivare rapporti trasversali, Romani potrebbe diventare presidente del Senato anche senza nessun accordo politico: a cominciare dalla quarta votazione potrebbe essere eletto a maggioranza relativa con i soli voti di Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia. E poi, come dicono alcuni suo colleghi: “Voglio vedere se a scrutinio segreto il Pd vota per i cinque stelle o per Romani”. La proposta avanzata dal Cavaliere e rifiutata da Di Maio (“vediamoci e parliamo dei candidati”) avrebbe portato alla candidatura di Annamaria Bernini.
Renato Brunetta, abnegazione calcolata
L’arma di Renato Brunetta è il cattivo carattere, ma sotto il cattivo carattere si nasconde un’abnegazione calcolata. In questo momento, mentre Gianni Letta spreme ogni grammo della sua intelligenza per far saltare definitivamente ogni ipotesi di accordo con Di Maio, mentre Niccolò Ghedini al contrario asseconda Salvini e dunque cerca di agganciare i cinque stelle, lui – Brunetta – ha un’idea fissa: ritornare a fare il capogruppo di Forza Italia alla Camera. Tutto il resto viene dopo. Lo ha detto, ripetuto, effondendosi e diffondesi, a chiunque. Soprattutto a Silvio Berlusconi, che ancora ricorda con terrore il giorno in cui Brunetta si piazzò nel suo studio, e dopo essersi sdraiato per terra, con le braccia dritte, rigide lungo i fianchi, gli disse, tra preghiera e minaccia: “Non me ne vado da questa stanza finché non mi avrai nominato almeno vice coordinatore di Forza Italia”.
Roberto Fico, il contestatore afono
Non si fida di Luigi Di Maio, che lo aveva candidato alla presidenza della Camera. E sotto sotto questo leader di minoranza, questo contestatore candido nel M5s, ha sempre pensato che quello, il capo politico incravattato, il ragazzo fortunato, lo volesse fregare. E a ben vedere come stanno andando le cose, quella di Roberto Fico probabilmente non è una sensazione priva di qualche fondamento. “Lo propongono per farsi dire di no, e poi avanzare il candidato vero, l’amico di Di Maio: Riccardo Fraccaro”. A settembre, alla festa del M5s a Rimini, Fico fu il protagonista di una afona contestazione contro il verticismo del Movimento, che aveva incoronato Di Maio. Venne pure filmato da Repubblica assieme in una scena da cinema muto, roba da Charlie Chaplin o Buster Keaton: c’era Fico che si agitava nel più assoluto silenzio, roteava gli occhi, giungeva le mani a preghiera, se le sbatteva contro il petto con teatrale vivacità, mentre l’altro, Di Maio, lo ascolta con le mani in tasca e l’aria annoiata. Intanto la sua candidatura alla Camera è durata meno di dodici ore.
Il Cav., mago della dissimulazione
Si muove come un prestigiatore, un mago della dissimulazione, e alla fine – ma si vedrà come andrà a finire – dimostra pure che l’età è sinonimo di esperienza. Consigliato dal suo Gran Visir, Gianni Letta, Silvio Berlusconi propone ai Cinque stelle il patto con il diavolo, una cosa che li tenta ma che li distruggerebbe. E infatti quando l’accordo sembra ormai chiuso, il Cavaliere svela e difende il suo candidato per il Senato: Paolo Romani, che per i cinque stelle è invotabile. Allora il Cav. invita Di Maio a parlarne di persona, sapendo benissimo che per i grillini sedersi al tavolo con il Caimano sarebbe mediaticamente peggio dello streaming di Bersani con Vito Crimi e Roberta Lombardi. Berlusconi conosce benissimo le lusinghe del potere. Così, in questa trattativa, lui si tiene stretto Salvini e prova a costringere Di Maio a fare qualcosa d’indecente. Un gioco più psicologico che politico. Con il quale Berlusconi rivela il timore più intimo di Di Maio: perdere la verginità, e non per aver conquistato il potere, ma solo per averlo sfiorato.