L'ambasciatore di Di Maio al nord frena sull'alleanza Lega-M5s
Stefano Buffagni, ex consigliere grillino in Lombardia e oggi deputato, è stato tra i primi teorici dell'accordo. Ma oggi preferisce agevolare le spaccature interne a Pd e Forza Italia: “Scomporre per ricomporre”
La cosa bizzarra, in apparenza, è che ora a predicare cautela, sull’alleanza con la Lega, è proprio lui che della convergenza tra il Carroccio e i Cinque stelle è stato tra i primi teorici. E anzi a guardar bene non è solo nella teoria, che Stefano Buffagni, nato a Milano ma cresciuto a Bresso, ha saputo tessere la trama a tinte giallo e verdi: lo ha fatto nel concreto, e con metodo, nel luogo che fino a qualche mese fa è stata la sua palestra politica: il Pirellone. E’ stato proprio lì che già in tempi non sospetti il giovane pentastellato, classe ’83 con una laurea in Economia alla Cattolica in bacheca e qualche mese di lavoro in un call-center per pagarsi gli studi, ha condotto operazioni che all’epoca potevano apparire perfino spericolate. E invece erano solo premonitorie. “Era lui il regista del gruppo, e trattava direttamente con Maroni”, dicono i leghisti lombardi che hanno avuto modo di conoscere Buffagni. Il quale con Maroni ci trattò direttamente anche sulla partita più complicata, quella del referendum sull’autonomina. Per indirlo ci voleva la maggioranza dei due terzi dell’Aula, e il Pd si sfilò subito. Per qualche giorno l’ex ministro dell’Interno tentennò, poi decise di fidarsi di quel grillino un po’ sui generis, tutta concretezza e poche velleità rivoluzionarie: fu Buffagni a garantire i voti della pattuglia grillina, che al momento della verità si mostrò compatta. Era il 17 febbraio de 2015, e chi additava le somiglianze tra la Lega e i grillini veniva preso per matto.
Eppure proprio oggi che l’accordo tra M5S e Carroccio per la formazione di un governo sembrerebbe stare nelle cose, ecco che è proprio Buffagni a rallentare. Certo, per le Camere la strategia si è riproposta. E non a caso proprio lui, che ha rinunciato ad un secondo mandato in Regione per approdare alla Camera, è stato vicinissimo a Luigi Di Maio nelle ore febbrili delle trattative. “Nella stanza dei bottoni ormai è presenza fissa”, dicono dall’inner circle del capo politico dei Cinque stelle. E in qualche modo lo è sempre stato, sin da quando la svolta istituzionale dettata dalla Casaleggio ha reso necessario che il leader pentastellato abbandonasse le tentazioni della decrescita e dell’uscita dall’euro e si accreditasse nei salotti buoni milanesi, con Buffagni immancabile scudiero a scortarlo, a presentarlo, a stringere mani.
Concretezza meneghina, certo, ma anche fiuto: l’ascesa di Buffagni la si deve alla sua consapevolezza di come, nella ricca Lombardia, una speranza di affermazione potesse passare solo per un rapido accantonamento dei miti barricaderi incarnati dal fu astro nascente del M5S locale, quel riccioluto e sprovveduto Mattia Calise non a caso relegato nel dimenticatoio. Ed ecco che allora quando si è trattato di parlare con Matteo Salvini, e più ancora col suo stratega Giancarlo Giorgetti, Buffagni – che come Giorgetti è commercialista, e come Giorgetti pragmatico e ritroso – è tornato indispensabile. C’era lui, accanto a Di Maio, la sera in cui si è deciso a dirsi pronto, con formula astuta, a sostenere “Anna Maria Bernini o un profilo simile”, assecondando la forzatura della Lega; e c’era lui anche un’oretta dopo, quando si è trattato di convincere il capo politico ad offrire un nome, quello di Riccardo Fraccaro, da sacrificare sull’altare dell’accordo che portava all’elezione di Roberto Fico. Altra mossa furba: ingessare il leader della minoranza interna in un ruolo istituzionale, costringerlo a stare un passo indietro rispetto al proscenio della polemica politica che verrà, e soprattutto costringerlo al silenzio, in futuro, quando si tratterà di cercare accordi trasversali, visto che è proprio accettando quegli accordi che lui è arrivato allo scranno più alto di Montecitorio.
E ora? Verrebbe da dire che il disegno stia per compiersi, che siano solo i dettagli a dover essere sistemati. E invece ora è proprio Buffagni a frenare. Chi ci parla, in queste ore, lo descrive cauto e prudente, tutto intento a prefigurare scenari più complessi di quel che si sarebbe portati a pensare. Non un accordo con la Lega per blindare un presidente del consiglio a Cinque Stelle; e neppure un voltafaccia radicale che spinga il M5S a rivolgersi al Pd e a LeU (benché il sinistrorso Fico, alla bisogna, potrebbe rappresentare un pontiere con quei mondi). No, il progetto di Buffagni è insieme più banale e più ardito. Lui agli amici lo sintetizza così: “Scomporre per ricomporre”. Andare, cioè, a incunearsi nelle faglie presenti nei vari schieramenti e agevolare le rotture, per poi attrarre i fuoriusciti con qualche buona offerta (anche se la candida retorica di rito prevede che si dica “convincerli sui singoli temi”). Da un lato c’è il Pd non renziano, che potrebbe approfittare della contingenza, e magari di qualche sollecitazione da parte di Sergio Mattarella, per rompere con l’ex segretario; dall’altro Forza Italia, e soprattutto quell’ala delle “colombe” da sempre più dialogante, meno restia a porre veti su altre forze. E insomma verrebbe quasi da scandalizzarsi, nel vedere come la strategia sognata dai Cinque stelle per assaltare Palazzo Chigi – con o senza Di Maio premier, checché ne dica Giggino – sia null’altro che una di quelle belle ammucchiate da vecchia politica contro cui il Sacro Blog ha tuonato per anni. Non fosse, però, che in fondo la mutazione è già avvenuta, nel Movimento trasformatosi in partito: e siccome troppo a lungo è durata l’astinenza, ora è con più foga, con più sbracato arrivismo che i grillini provano ad arraffare. Fantapolitica? Può darsi.
Ma proprio ieri, tornato a Milano per delle commissioni al Pirellone, Buffagni ha incrociato un paio di notabili locali del Pd e di Forza Italia. “Ci vediamo tra poco?”, gli ha chiesto lui. E si riferiva a un incontro al bar per un caffè. Ma loro hanno frainteso, forse volutamente, e hanno subito pensato al governo. “Preparatevi a spaccarvi, poi al comitato d’accoglienza ci si penserà”, ha replicato allora lui. Nel salutarlo, quelli che dovrebbero essere suoi rivali lo hanno chiamato “ministro”. Ma ora tutti giurano che fosse uno scherzo.