La prima volta senza Giulio
La legislatura che si è aperta è la prima della Repubblica in cui Andreotti non c’è. E ci vorrebbe, con la sua arte di mediatore. Ma in fondo c’è: da “non sfiducia”a“due forni”, tutte le sue invenzioni sono tornate di moda
Resterà probabilmente controverso, il dibattito tra gli storici attorno a un punto sottile della biografia di Giulio Andreotti: se fosse un politico vendicativo, oppure no. La fisionomia vaticana, l’antropologia ciociara, le labbra sottili e taglienti quanto gli occhi che si facevano a fessura non hanno mai aiutato, neppure in vita, a decifrare. Assai meno lineare che non il tratto vendicativo, da Terza Internazionale, di Giorgio Napolitano, senatore a vita e membro più anziano della XVIII legislatura della Repubblica italiana iniziata il 23 marzo 2018. Il quale, in quanto membro più anziano, ha aperto i lavori dell’ameno consesso di sprovveduti consumando una vendetta politicamente ineccepibile ma formalmente maramalda sul corpo già pieno di lividi di Matteo Renzi, il giovane apprendista stregone che gli ha scombussolato tutto il Disegno, che gli ha mandato gambe all’aria tutti i piani per la Grande Riforma.
Lui che tutto annotava. Perché in
politica ciò che è accaduto una volta
può sempre tornare utile per provare
un nuovo esperimento in futuro
Chissà se Andreotti l’avrebbe fatto. Lui che non ebbe parole vendicative neanche quando da Palermo risuonò il famoso grido, “assolto!”. Lui che forse non perdonava, ma si limitava a tutto annotare. Perché in politica, come nella scienza, ciò che è accaduto una volta può sempre tornare utile per provare un nuovo esperimento in futuro. Lui che nel 2013 lasciò l’onore di inaugurare Palazzo Madama a Emilio Colombo. Senza più voglia, o forse nemmeno tempo, di voler insegnare qualcosa a qualcuno.
Giorgio Napolitano, 92 anni, è oggi il membro più anziano del Parlamento perché Giulio Andreotti, senatore a vita pure lui, è morto il 6 maggio 2013, poco dopo avere iniziato la sua diciassettesima avventura tra gli scranni del Senato. La legislatura che ha appena debuttato ha questo dettaglio particolare, che appartiene più al simbolico che allo statistico: è la prima nella storia della Repubblica ad aprirsi senza Giulio Andreotti.
Quando fu eletto all’Assemblea costituente, nel 1946, aveva 27 anni. Quando divenne sottosegretario alla presidenza del primo governo di Alcide De Gasperi (su benedizione di un tale monsignor Giovanni Battista Montini) ne aveva 28. Quando fu eletto al primo Parlamento repubblicano, nel fatidico 1948, ne aveva 29. Da allora è stato l’uomo politico più votato in Italia in tutte le elezioni, tranne nel 1948 e nel 1953, a inizio carriera, battuto soltanto da De Gasperi. E da Aldo Moro nei tempi d’oro del centrosinistra, 1963 e 1968.
Questa storia dell’uomo politico più votato della storia d’Italia merita un inciso, di questi tempi populisti. Zio Giulio è uno che i voti se li conquistava con cura maniacale, lettera scritta a mano per lettera scritta a mano, convento per convento, rubriche di settimanale e libri pop a cadenza quasi annuale. Era popolare, lui. Classe dirigente, ma popolare. Qualcuno che s’è fatto trombare, pur essendo ministro, dovrebbe prendere un appunto per la prossima volta. Ma essere stato il parlamentare più longevo d’Italia – eterno è solo Dio, avrebbe detto lui, che a detta di Montanelli in chiesa preferiva parlare direttamente col prete – e il più votato, e quello con più incarichi come presidente del Consiglio (sette) e recordman di ministeri con portafoglio (diciannove) fa di Giulio Andreotti qualcosa di più di un’assenza statistica, di un talismano venuto a mancare?
Lo ha notato più di qualcuno. Questa che è appena iniziata, con un Parlamento aperto come una scatola di tonno quando l’apriscatole funziona male e l’olio del tonno se ne va tutto per la tovaglia, è la legislatura in cui maggiormente Zio Giulio, il Divo Giulio, sarebbe servito. Con la sua infinita arte del ricamo e delle trattative, con la sua misteriosa pazienza di animale a sangue freddo, con la sua inventiva nel creare formule di stabilità impossibile, che stavano in piedi come paradossali sfide dell’ironia alla politica intesa come scienza esatta. Ci avrebbe sguazzato, nelle trattative di queste settimane tra populisti arroganti e sconfitti disorientati e silenti, tra evocazioni d’Aventino (roba che a scriverla, poi, ogni cronista si sente in dovere di spiegare di che si tratta) e neologismi improponibili, come “i collisti”. Ma soprattutto, ed è questa la cosa davvero interessante, sono tornate attuali alcune sue idee, alcune parole chiave. E metodi. Bisognerebbe però saperli manovrare.
Il governo 1976 della “non
sfiducia”, e non “di minoranza”,
gran retorica degna di Cicerone.
Del resto era ciociaro anche lui
Quello che segue è un breve elenco. A partire dall’antefatto che tutti hanno evocato, sviscerato, commentato già dalla lunga notte del 4 marzo (ma i più svegli avevano già cominciato prima, si sapeva come sarebbe andata a finire con quell’apriscatole ossidato del Rosatellum). Il terzo governo Andreotti, nato nel luglio del 1976 dopo elezioni che avevano messo la Democrazia cristiana non in grado di governare con i soliti rocamboleschi alleati, e il Partito comunista a un passo (sempre a un passo) dal poterlo fare, ma non ancora. E’ l’esecutivo che nelle scorse settimane è stato evocato come una possibile, rediviva formula del “governo di minoranza”.
Ma, ammesso e molto poco concesso che dopo quarant’anni possa mai funzionare qualcosa di simile, bisogna precisare meglio i termini della questione. Perché se c’è una cosa che tutti dimenticano è che lo Zio Giulio era un precisino, non un improvvisatore. I suoi marchingegni governativi, per funzionare, avevano bisogno di una precisa balistica, e di una ben costruita retorica. Pertanto: il governo del 1976 non fu un “governo di minoranza”. Nacque invece come il governo della “non sfiducia”. Un monocolore che si reggeva sull’astensione di tutti i partiti dell’arco costituzionale. E su un espediente retorico di sapienza ciceroniana (Cicerone era un ciociaro mica per niente), come ha notato Alessandro Banfi di “Matrix”, grande andreottologo ed esegeta della Balena Bianca. Una formula brillantemente cavata dallo stesso Divo Giulio: “Chiedo al Parlamento di non mettere la sfiducia”. Una doppia negazione, che funziona come un’affermazione ma mitigata. Un modo per calmare le acque tra nemici e rivali. Un modo di non chiedere troppo, pur chiedendo molto. Un modo per dire al Pci che ancora non si poteva fare, un governo di larghe intese, epperò era un po’ come se fosse già nato, ma non ditelo in giro.
Un capolavoro di tatto, di strategia del ragno, di cui forse oggi ci sarebbe bisogno sì, ma servirebbe il ragno. Appunto. Il governo della “non sfiducia” resse meno di un paio d’anni. Ma qualcuno nel Pd oggi sogna, con punte di masochismo prossime all’orgasmo, di poter fare lo stesso votando una bella “non fiducia” ai Cinque stelle.
Poi venne, nel 1978, l’Andreotti IV, la “solidarietà nazionale”, quello sì con la fiducia votata dall’esterno anche dal Pci. Ma era il 16 marzo, ci volle il trauma nazionale del rapimento di Aldo Moro. E un trauma purchessia, pur di rendere più limpide le acque torbide del 2018, non lo vorrebbe nessuno, no? Ma un mediatore ci vuole, ci vorrebbe. Servirebbe anche ai due rissosi e poco affidabili vincitori, nel caso decidessero davvero di mettersi d’accordo e spartirsi il governo. L’altra parola magica andreottiana riemersa dal passato è infatti “la staffetta”. Un’idea profondamente democristiana, che necessita di una buona dose di generosità, cinismo e preveggenza: il passaggio del potere – insomma Palazzo Chigi – fra alleati.
C’erano due galli rampanti, a quell’epoca, costretti a convivere nello stesso governo ma portatori di programmi, nonché ambizioni personali, assai diversi. A metà anni Ottanta fu l’allora ministro degli Esteri Andreotti a fare da mediatore, proponendo a Bettino Craxi la prima poltrona del governo. A patto che a metà mandato si dimettesse, per lasciare il posto a Ciriaco De Mita. Non ne venne fuori una gran cosa, ma per un po’ sembrò poter funzionare.
“It could work” sognano di poter dire, come Frankenstein jr., anche i nuovi aspiranti staffettisti. Auguri.
In alternativa alla staffetta dei vincitori, c’è l’eterna coalizione di tutti gli altri. E tornano riti andreottiani, perché più del dialogo col Pci (specialità Aldo Moro) era lui il re ai fornelli, il grande cucinatore di differenti ingredienti che poi alla fine, magicamente, producevano sempre la solita
Di Maio e Salvini potrebbero
giocare alla staffetta, come il Divo
Giulio fece fare a Craxi e De
Mita. Ma si fecero un po’ male
zuppa. Arte difficile, se riportata all’oggi. Detto che fu suo anche il governo con durata più breve della storia italiana, nove mesi, il suo secondo governo fu un multiplo Dc-Psdi-Pli con l’appoggio esterno dei Repubblicani. Fu il primo embrione del pentapartito, altra creazione democristiana in cui Zio Giulio mise molto del suo, a partire da quell’idea mediatrice di restare il partito di maggioranza relativa pur riconoscendo pari dignità – e il volante dell’utilitaria – a quelli che in ogni altro paese dell’occidente sarebbero stati chiamati junior partner. Ammesso e non concesso che avesse i numeri, riuscirebbe oggi una colazione “tutti dentro tranne i populisti” – da Berlusconi riabilitato e rinsavito (cioè mollando i puzzoni) a un Renzi ritrovato, agli altri scampoli di sartoria – a riconoscersi pari dignità e pari opportunità? Forse no, il compromesso è un’arte difficile, per gente matura.
Un’altra espressione che porta stampigliato il copyright di Zio Giulio, e che proprio più andreottiana non si può, è la politica dei “due forni”. Correva l’anno 1979, Gigi Di Maio manco era nato e Matteo Salvini giocava con le biglie. Il gran panettiere ciociaro, di fronte alle richieste sempre al rialzo di chi sosteneva il governo o si offriva per, iniziò a teorizzare la politica “dei due forni”, in base alla quale la Balena Bianca, che ancora comandava il banco, si sarebbe potuta rivolgere indifferentemente al Pci o al Psi, a seconda della bisogna e a seconda di chi dei due “facesse il prezzo del pane più basso”. Ora fa un po’ impressione vedere l’autodesignato presidente del Consiglio Di Maio giocarsela tra pani e focacce, per vedere se il prezzo più conveniente glielo farà il Pd oppure la Lega.
E Salvini fare lo stesso, con i Cinque stelle e il Cavaliere. Ma siccome Andreotti era popolano vero, non populista, oggi consiglierebbe, con una delle sue sue battute da proverbio, che per andare ai due forni bisogna saperci fare, altrimenti finisce che ci si scottano le dita. E se ci si scottano le dita, alla fine può succedere anche questo. Che il fantasma di Andreotti si farà ancora più presente e incombente, sopra i Palazzi della politica, con due paroline che per lui erano consuete, ci è passato tante volte, e altrettante ci ha volontariamente infilato il paese: “elezioni anticipate”. Un giochetto pericoloso, che non va sempre bene.
L’arte raffinata del mediatore. E
la popolarità nelle urne conquistata
palmo a palmo, libro per libro. Se ne
ricordino, i ministri trombati
Ci fu una volta che Andreotti le convocò, pensando di avvantaggiarsi sugli alleati. Per la Balena Bianca andò particolarmente male. E vennero gli anni di purgatorio di cui Craxi disse: “La vecchia volpe è finita in pellicceria”. Serva da monito a quelli come Salvini (“al 50 per cento si ritorna a votare”) che pensano che le urne siano sempre un vantaggio. Invece Matteo Salvini è un poco incauto, e s’è lasciato scappare che a lui non interessa entrare in un governo “che tira a campare”. E chissà se si è accorto di avere, un’altra volta ancora, evocato Andreotti. Quello Zio Giulio che, standosene al governo, disse “è meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. E’ la prima legislatura senza Giulio Andreotti, sì. Ma più che le formule, oggi in politica di lui manca la concretezza, la mancanza di ideologia, la duttilità. Ma soprattutto forse la fantasia linguistica, che è un altra faccia della logica. Anche se le “convergenze parallele”, quelle sono di Moro.
Equilibri istituzionali