Il titolo di studio e la democrazia
La lezione di Di Vittorio, grande leader popolare con la terza elementare e la voglia di imparare
Dopo la sberla elettorale è diventato disdicevole parlare di titoli di studio o delle competenze professionali degli eletti in generale e del M5s in particolare. Siccome hanno preso un sacco di voti, nulla si può dire sul fatto che il primo partito italiano abbia scelto come tesoriere un deputato con la terza media (per colpa della “malasanità”) e che abbia come candidato premier uno studente fuoricorso (“sono diventato vicepresidente della Camera a 26 anni, e mai avrei approfittato del mio ruolo per andare a fare gli esami”, ha detto Di Maio). Usare questi argomenti è, si dice, un tipico atteggiamento “classista” e “radical chic”, che spiega il distacco dal “paese reale” e le ragioni della sconfitta elettorale.
E’ ovvio che non è dal titolo di studio che si misura la qualità di una persona, il mondo e la storia sono pieni di statisti e grandi personaggi che in tutti i campi hanno fatto cose eccezionali senza il pezzo di carta (ma nessuno di essi senza competenze). Su questo sono tutti d’accordo: la politica non è un concorso pubblico per titoli e in democrazia contano i voti degli elettori, non quelli dei professori. Ma non è di questo che si discute. Il tema è il ruolo che una società deve dare alla preparazione, se la classe politica debba essere giudicata anche per la competenza o solo secondo altri criteri. Bisogna capire se la meritocrazia sia un valore oppure se sia una forma di “classismo”, se cioè il “sapere” sia una forma di potere esercitato da una parte per escludere le forze sane e genuine della società.
E’ allora il caso di fare un passo indietro, a quando la divisione in classi era più netta e sentita. Una polemica per certi versi simile aveva riguardato un personaggio gigantesco come Giuseppe Di Vittorio, il sindacalista dei braccianti, il primo segretario della Cgil, il politico antifascista. Nel 1953 alcuni giornali “borghesi” ironizzarono sul fatto che uno con la terza elementare come Di Vittorio fosse stato invitato come relatore al “Congresso della cultura popolare”. Di Vittorio era in realtà un uomo di profonda cultura, nel senso che ne aveva ma soprattutto perché la ricercava. Rimasto orfano di padre, abbandonò la scuola. A otto anni divenne bracciante per aiutare la madre e riuscì a ottenere il diploma di terza elementare alle scuole serali. “Aveva lasciato la scuola, ma i libri non li aveva lasciati”, ha scritto Gianni Rodari, descrivendolo con tono un po’ agiografico come il bambino che consumava per i libri i pochi soldi guadagnati e nella lettura “al lume di candela” le ore notturne di riposo dopo una giornata di lavoro nei campi.
Di Vittorio a Potenza negli anni ’50. ( foto via www.cgilbasilicata.it)
Ebbene, quando parlò in quel congresso a Bologna del 1953, Di Vittorio rispose ai “giornali benpensanti” che non si sentiva “rappresentativo della cultura” ma “delle masse popolari più umili e più povere che aspirano alla cultura, che si sforzano di studiare e cercano di raggiungere quel grado del sapere che permetta loro non solo di assicurare la propria elevazione come persone singole, di sviluppare la propria personalità, ma di conquistarsi quella condizione che conferisce alle masse popolari un senso più elevato della propria funzione sociale, della propria dignità nazionale e umana”.
Egli si riteneva “un evaso da quel mondo dove ancora imperano in larga misura l’ignoranza, la superstizione, i pregiudizi, gli apriorismi dogmatici che derivano da questa ignoranza”, sapeva quanto sono “grandi gli sforzi che occorrono per tentare di uscirne” e voleva aiutare i “milioni di fratelli” relegati “dietro quel muro” a liberarsi. Il “classismo” non era nella cultura in sé, ma in ciò che impediva ai braccianti e ai figli dei poveri di avere accesso all’istruzione. Dall’alto della sua terza elementare conquistata con sofferenza e sacrificio, Di Vittorio si batteva per una società che consentisse ai poveri di studiare per emanciparsi, non certo per un sistema che in nome del popolo permette ai “borghesi” di far carriera senza studiare.