La democrazia è sopravvalutata?
Se governassero solo i competenti ci sarebbero più giustizia e più prosperità, scrive Brennan. Ma non si può
Pubblichiamo la prefazione di Sabino Cassese al libro “Contro la democrazia” di Jason Brennan, uscito in Italia in questi giorni per Luiss University Press. Il volume contiene anche un saggio di Raffaele De Mucci.
La democrazia rappresentativa è nata come forma epistocratica e tale è rimasta per lungo tempo, nell’antichità prima e poi in tutto il periodo del suffragio limitato. Ancora alla fine del Diciottesimo secolo, “lo scopo di ciascuna costituzione politica è, o dovrebbe essere, quello di assicurarsi come governanti degli uomini dotati di molta saggezza per ben discernere, e molta virtù per perseguire il comune bene della società; e, in secondo luogo, di prendere le precauzioni più efficaci affinché essi si mantengano onesti per tutto il periodo in cui durerà il loro mandato. Il sistema elettivo nella scelta dei propri governanti rappresenta una caratteristica essenziale del regime repubblicano”, come si può leggere nei Federalist Papers, n. 57. Il fondatore del diritto pubblico italiano, uno studioso che è stato attivo anche come uomo politico per più di trent’anni, Vittorio Emanuele Orlando, riteneva che l’elezione fosse una designazione di capacità: un gruppo ristretto di elettori indicava quelli che riteneva capaci di gestire problemi collettivi. Chi votava sceglieva non solo kratos, ma anche aretè ed episteme, non solo forza, ma anche virtù e competenza. Questo valeva quando il suffragio era limitato per censo, o per grado di istruzione, o per esperienza nell’esercizio di funzioni pubbliche. Successivamente, in momenti storici diversi nei diversi paesi democratici, e con progressioni diverse, sono accaduti due fenomeni. Il suffragio è stato allargato prima, progressivamente, alle sole persone di sesso maschile, poi anche alle donne. Si è diffusa l’idea che all’eguaglianza nella titolarità dell’elettorato attivo corrispondesse eguaglianza delle capacità. Insomma, si è affermata l’idea che l’eguaglianza formale e l’eguaglianza sostanziale, in materia politica, andassero di pari passo. Idea, quest’ultima, molto singolare e perfino smentita dalle norme. Singolare perché è palese che l’aver attribuito ai cittadini un compito tanto gravoso quanto il governo della “casa comune”, in condizioni di eguaglianza, non comporta che tutti i cittadini siano egualmente edotti delle esigenze di gestione della “casa comune”, capaci di scegliere tra i diversi indirizzi di gestione, abili nello scegliere le persone giuste, idonei ad assumere essi stessi funzioni di governo. In secondo luogo, la parificazione di eguaglianza formale e di eguaglianza sostanziale in materia politica è smentita dalla Costituzione, la quale riconosce la prima, ma prevede che la Repubblica abbia il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono l’“effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. Quindi, la Costituzione assume che vi siano diseguaglianze di diverso ordine che ostacolano l’effettiva partecipazione politica. I due problemi sollevati dalla dissimmetria, quello dei cittadini non educati e quello dei delegati non competenti, sono stati notati presto dagli osservatori. Ad esempio, John Stuart Mill, nelle Considerazioni sul governo rappresentativo, distingueva cittadini attivi e passivi, sia per cultura politica, sia per interesse. E James Burnham e Jean Meynaud affacciavano nelle loro opere la possibilità che al governo fossero chiamati dei tecnici (tecnocrazia). Di fatto, per circa un secolo, il vuoto creato dal suffragio universale, che non assicura la scelta secondo kratos, aretè ed episteme insieme, è stato riempito da un altro sistema di formazione e di selezione: gli stati hanno delegato il compito di superare le diseguaglianze tra i cittadini, ai fini della partecipazione politica, ai partiti, che hanno svolto il compito di “palestra” per la “Bildung” e la selezione dei candidati. I partiti politici, quindi, hanno supplito gli stati in un compito essenziale, quello di portare persone capaci e con esperienza alla guida di quella macchina complessa che sono oggi i poteri pubblici. Ma, a un certo punto, anche i partiti sono venuti meno, si sono “liquefatti”. Oggi, anche per la diffusione di istanze populistiche, molte classi dirigenti, nel nuovo millennio, hanno raggiunto – ma non in tutti i paesi in maniera eguale – un grado di mediocrità tale da suscitare reazioni antidemocratiche. Una di queste, molto ben articolata, si trova nel volume di Brennan, programmaticamente intitolato Contro la democrazia, un’opera nella quale il punto di partenza è che l’epistocrazia (il governo di coloro che conoscono, dei competenti) condurrebbe a migliori decisioni, più giustizia, più prosperità. La critica di Brennan è rivolta sia alla democrazia rappresentativa, sia alla democrazia deliberativa. La democrazia rappresentativa è criticata principalmente perché la maggior parte dell’elettorato ha bias cognitivi che lo portano a deviare sistematicamente da scelte razionali. L’evidenza empirica offerta da Brennan è impressionante: basti pensare ai costi del terrorismo per gli Stati Uniti (350 persone morte negli ultimi cinquant’anni e 30 miliardi di dollari), comparati con quelli della guerra al terrorismo (8.000 morti, senza calcolare i circa 100-200.000 civili innocenti stranieri, e una spesa oscillante tra 3 e 4 trilioni di dollari).
La democrazia detta deliberativa (o dibattimentale), dice Brennan, produce diseguaglianza, spinge su posizioni estreme, induce in contraddizioni ed errori, e peggiora, anziché migliorare, le carenze della democrazia rappresentativa. Questi inconvenienti inducono Brennan a proporre di distribuire il potere politico in proporzione alla conoscenza o alla competenza. Secondo Brennan, Parlamenti, elezioni in concorrenza, libertà di parola sono compatibili con un regime epistocratico. L’unica differenza sarebbe che i cittadini non avrebbero eguale diritto di votare e di essere votati.
Sono accettabili le proposte epistocratiche di Brennan? In primo luogo, l’autore non considera come operano gli ordini giuridici democratici. Negli ordinamenti democratici, democrazia è contrapposta o integrata da democrazia: negli Stati Uniti, si vota per le contee, per gli Stati, per il Congresso (separatamente per la Camera dei rappresentanti e per il Senato) e per il presidente. Dunque, un popolo non competente può essere controllato e corretto da altre istanze popolari. Inoltre i poteri pubblici non sono tutti egualmente democratici, perché non tutto il potere è affidato a istituzioni democratico-elettive. Il potere è ripartito e in larga misura messo nelle mani di competenti, quali sono i funzionari amministrativi e i giudici federali, a partire dalla Corte suprema, organismi tutti che possono contrapporsi al potere affidato a organi elettivi, composti da personale scelto sulla base delle loro competenze, del loro sapere o della loro esperienza, secondo il merit system. Dunque, gli odierni ordinamenti sono già in larga misura epistocratici, come Brennan stesso riconosce quando considera il potere della Corte suprema di dichiarare incostituzionali atti deliberati da organi democratici.
Brennan, come molti studiosi della democrazia, non presta attenzione al pluralismo, alla ripartizione del potere tra organismi diversi, agli ampi spazi nei quali operano organismi i cui meccanismi di selezione sono epistocratici o meritocratici, organismi che possono giungere perfino a controllare quelli democratici in senso stretto, perché elettivi. Né presta attenzione al fatto che spesso si adopera la parola “democrazia” per indicare la parte per il tutto (la democrazia americana, la democrazia italiana, per indicare il sistema politico americano o quello italiano). Il tutto, la restante parte dei poteri pubblici, una volta esclusi gli organismi elettivi, costituisce la parte più consistente, di gran lunga più ampia dei sistemi politici (degli stati).
Il plaidoyer in favore di sistemi politici meno affidati a incompetenti è, quindi, inutile? Non credo, perché vi sono ancora spazi per innestare ulteriori elementi epistocratici nelle democrazie. Se all’idraulico e al medico è richiesto di conoscere un mestiere, non è opportuno richiedere un certo grado di preparazione a chi deve svolgere un compito tanto più socialmente importante come quello di rappresentante o di governante? La Costituzione italiana, all’articolo 48, pone accurati limiti a questa possibilità di ampliamento della epistocrazia, perché dispone che “il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicata dalla legge”. Esso, pur limitando le possibili limitazioni, apre due spiragli, quello della incapacità civile e quello della riserva di legge finale.
Inoltre, anche la Costituzione italiana richiede l’abilitazione per l’esercizio delle professioni (articolo 33), dispone che l’accesso agli uffici pubblici avvenga sulla base dei requisiti stabiliti dalla legge (articolo 51), stabilisce il requisito del compimento di cinquant’anni per diventare presidente della Repubblica (articolo 84) e prevede l’accesso agli impieghi pubblici e alla magistratura previo superamento di un concorso (articoli 97 e 106). Ci si può chiedere perché si impongano questi requisiti per l’accesso a tante cariche e non ad altre. La conclusione di queste osservazioni è che l’epistocrazia può operare come correzione della democrazia, come un suo limite, non al posto di essa, salvo tornare al suffragio limitato per livello di istruzione. Oggi il suffragio universale è il meccanismo principale per dare legittimità al governo e non se ne può fare a meno. Tuttavia, requisiti ulteriori di candidabilità possono essere disposti, insieme ad azioni positive che diano un contenuto al principio di eguaglianza in senso sostanziale, per rendere concreto l’articolo 3 della Costituzione, secondo il quale la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono l’“effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”.