Sì, il Pd è un partito di sinistra. Il problema è imparare a comunicarlo
Se Corbyn e Sanders hanno avuto la capacità di rivitalizzare i loro partiti, non è perché sono più a sinistra del Pd, ma è perché il loro messaggio è stato integro, intelligibile, valoriale, diretto
Al direttore - C’è un interrogativo al quale ancora non si è data risposta: come mai tanti elettori che oggettivamente hanno beneficiato delle politiche dei governi del Pd non hanno alla fine votato per il Partito democratico?
Penso ai milioni di italiani che hanno ricevuto 960 euro all’anno in più per quattro anni in busta paga; alle svariate decine di migliaia di insegnanti stabilizzati dopo una vita di precariato; alle associazioni Lgbt, nessuna delle quali ha apertamente appoggiato il Pd nonostante la legge sulle unioni civili; agli imprenditori, che nonostante tutti i parametri economici in crescita e gli investimenti massicci dei nostri governi hanno votato – come ha scritto qualche giorno fa Dario di Vico sul Corriere – prevalentemente per la Lega. Una delle possibili chiavi di lettura l’ho trovata, come spesso accade, nella vita quotidiana. Ho un caro amico, che è il papà di un ragazzo autistico, che è molto arrabbiato con il Pd. Delle volte, conversando con lui, ho avuto l’impressione che la legge sull’autismo approvata nella scorsa legislatura non solo non abbia lenito in alcun modo la sua rabbia, ma che quella legge sia addirittura la ragione stessa del suo risentimento. Per quanto mi sia sforzato di spiegargli la rilevanza politica dell’aver messo il suo problema in cima alle nostre priorità, di averci lavorato, di averne discusso in Parlamento, di aver tenuto le aule di Camera e Senato a lavorare per giorni – sotto gli occhi del paese – sul tema dell’autismo, per quanto insomma abbia cercato di spiegargli che siamo stati i primi a prenderci a cuore un tema che per i nostri predecessori semplicemente non esisteva, il mio amico, con toni esacerbati, è sempre tornato su ciò che, a suo dire, è mancato in quel provvedimento: il fatto che la legge sull’autismo non è servita, almeno nel suo caso, a rendere più semplice la sua vita.
E’ insomma come se certi atti legislativi, pur doverosi, pur lodevoli, abbiano creato aspettative e bisogni che non sono stati pienamente soddisfatti: come se aver risolto il problema per tre quarti abbia attratto tutta l’attenzione sul quarto della soluzione che è mancata. Le mediazioni fatte per portare a casa le importanti leggi della scorsa legislatura ci sono state fatte pagare con gli interessi, a scapito del riconoscimento della fatica e del merito di aver approvato quei provvedimenti tanto attesi. Gli esempi di provvedimenti “di visione” che hanno perso di carica durante il percorso sono numerosi: alle unioni civili manca la stepchild adoption; alla legge sulla continuità affettiva manca il riconoscimento delle coppie affidatarie non sposate; i voucher sono stati annacquati dalla marcia indietro fatta in seguito; le cattedre Natta alla fine non hanno visto la luce; spesso incontro persone che mi rimproverano di non aver “difeso abbastanza” la riforma della scuola; anche la riforma costituzionale approvata dal Parlamento era molto diversa e meno coerente del disegno di legge originariamente presentato dal governo alle Camere.
Alla fine, la ricerca del compromesso dettato da un lato dalla scarsità delle risorse disponibili e dall’altra dall’aver governato in una legislatura nata male ha comportato una serie di negoziazioni –con Alfano, certo, ma anche con Speranza o, per restare in casa, con Cesare Damiano – che hanno annacquato il senso politico di troppe delle tantissime e assai lodevoli cose fatte e finito con lo scontentare tutti: sia chi quei provvedimenti non avrebbe proprio voluto vederli nascere, sia chi da quelle leggi si aspettava novità rivoluzionarie che non ha visto.
Il senso di responsabilità insito nel nostro dna e quello proprio della natura stessa dell’attività del governare ci hanno gravemente penalizzati sul piano dell’immagine e del posizionamento politico. Nel racconto dei media e nella visione collettiva il Pd è diventato la politica deteriore, quella manovriera, quella della continuità a tutti i costi e dell’attaccamento alla potere. I nostri sforzi di trovare voti in Senato – ora di qua, ora di là – per approvare leggi che hanno oggettivamente fatto bene al Paese (perché in Senato, ricordiamolo sempre, con i soli voti del Pd non si sarebbe approvato nulla) non sono stati l’immagine della tenacia di un volenteroso riformismo ma quella dell’arroganza di un trasformismo riprovevole.
Se mi guardo allo specchio, però, non mi riconosco in questo ritratto: noi non siamo nulla di tutto questo. Per quanto il concetto di sinistra possa essere in crisi nel mondo, i nostri valori sono solidi, e chiari: l’Europa, il valore della democrazia rappresentativa, l’importanza della dignità del lavoro e del ruolo sociale delle imprese, un’economia di mercato rispettosa delle regole, l’inclusione e il rispetto per la diversità, il libero commercio contro il protezionismo, la promozione dei meritevoli e la protezione dei più deboli, la fiducia nella ricerca scientifica e nello sviluppo tecnologico, il dibattito democratico nei partiti e nelle istituzioni, la parità tra i generi, la tutela dell’ambiente, il rifiuto dei nazionalismi, la partecipazione attiva alle organizzazioni internazionali, lo sviluppo sostenibile, la sacralità delle garanzie per il cittadino nei suoi rapporti con lo Stato: tutti valori per i quali vale la pena vivere e combattere, ma che sono diventati sempre meno visibili nella routine della gestione quotidiana.
A questo si è aggiunto un dibattito nel Pd che è stato autolesionista all’interno e incomprensibile all’esterno. Al punto che oggi il problema non è – come dovrebbe essere – la disciplina teocratica imposta ai parlamentari M5s o la totale assenza di dibattito nella Lega o il diritto di proprietà esercitato da Silvio Berlusconi su Forza Italia, tutte cose su cui nessun osservatore pare avere nulla da ridire, ma il caos permanente che ha rimpiazzato la democrazia interna nel nostro Partito.
Se guardo all’estero, a chi oggi riesce da sinistra a parlare ancora alla società e ai giovani in particolare, vedo personaggi – quali Corbyn o Sanders – ai quali riconosco una differenza con noi che non ha tanto a che fare con l’ideologia, ma molto a che fare con il metodo. Non c’è alcun bisogno di una “svolta a sinistra”, come ha detto qualche mio autorevole compagno di partito, per il semplice motivo, che dovremmo tutti genuinamente condividere, che il Pd non è mai stato nient’altro che un partito di sinistra. Di una sinistra di questo secolo, quello sì: ed è questa la ragione per cui non siamo spariti politicamente e 6 milioni di italiani ci hanno chiesto ancora una volta di rappresentarli.
Se Corbyn e Sanders hanno avuto la capacità di rivitalizzare i loro partiti, se sono stati capaci di parlare a più persone, non è perché sono più a sinistra di noi, ma è perché il loro messaggio è stato integro, intelligibile, valoriale, diretto. “Limpido”, questa è la parola più giusta. Nel loro parlare c’è stata una visione, un’ispirazione, un’idea di società facilmente comprensibile e condivisibile. Niente di politicista: molta coerenza e zero compromessi. E questo vale anche per Justin Trudeau, che è riuscito a mantenersi “alto”, al contrario di Corbyn e Sanders, anche da vincente, anche da una posizione di governo. E fu proprio la percezione di Matteo Renzi come uomo di cambiamento, con un messaggio di alternativa a un establishment screditato, che gli consentì di portare il Pd al record del 40 per cento dei voti a soli tre mesi mesi dal suo ingresso a Palazzo Chigi.
Di questo, io credo, ha bisogno il Pd. Di tornare limpido, di rifocalizzarsi sui suoi valori. E’ tempo di tornare a pensare. A lavorare sul tipo di società che abbiamo in mente, ai cambiamenti e alle grandi sfide del nostro tempo, alle cose – insomma – per cui secondo noi vale la pena vivere e combattere. E questo, il concetto si spiega da sé, si può fare solo e soltanto dall’opposizione.