Nicola Molteni, il soldato di Salvini
Il deputato della Lega, benedetto anche da Maroni, è l’uomo che piace ai grillini per il ministero della Giustizia
Roma. La prima investitura fu Roberto Maroni, suo grande estimatore, a conferirgliela. Era il settembre 2016, e l’allora governatore, in una festa della Lega a Como, azzardò: “Le prossime politiche le dobbiamo vincere e ottenere così il ministero dell’Interno. Uno, casualmente, ha quarant’anni, come me quando sono diventato ministro, ed è nato a marzo come me, ed è di qua”. Parlava di Nicola Molteni da Cantù, Maroni. Previsione non del tutto avveratasi, se è vero che per il quarantaduenne deputato del Carroccio, nei conciliaboli tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini, si immagina, più che al Viminale, un approdo in Via Arenula.
E allora potrebbe rivelarsi più azzeccato un altro pronostico. Quello che a fine marzo, in una cena dei parlamentari del Carroccio, ha lanciato Giulia Bongiorno: “Nicola è il nostro ministro della Giustizia ideale”. Ed è scattato l’applauso. Del resto, quanto sul navigato deputato canturino alla terza legislatura – strenuo sostenitore della legge sulla legittima difesa (che legittima, secondo lui, sarebbe “sempre”) – Salvini voglia puntare, lo ha già dimostrato a metà aprile, scegliendolo per la presidenza della commissione speciale alla Camera. “E’ un soldato operoso – gli riconoscono gli amici parlamentari – di cui il generale sa di potersi fidare”. E la conferma è arrivata giovedì scorso, quando Molteni – lui, così giovane, eppure già uno dei pochi reduci della “vecchia” Lega, insieme a Giancarlo Giorgetti e Roberto Calderoli, a essere ammesso nella cerchia del nuovo capo – si è seduto, con lo stato maggiore del Carroccio, al tavolo di concertazione di fronte alla delegazione del M5s, per la stesura del programma.
E l’impressione condivisa da più di uno dei presenti all’incontro è stata in fondo che proprio in quella stanza, in quel paio d’ore, si stesse consumando una sfida solo apparentemente segreta: quella, cioè, tra Molteni e l’altro candidato per il ruolo di guardasigilli, il grillino Alfonso Bonafede. Il quale però parte svantaggiato: perché, anche a detta dei suoi compagni pentastellati d’alto rango, Molteni è uno “molto in gamba”. E non per niente sarebbe stato lui, a quanto si racconta, a indicare la soluzione di compromesso sul tema che stava ingigantendosi e creando imbarazzi trasversali. Sarebbe stato Molteni, infatti, a suggerire di inserirlo, nel programma di governo, l’impegno sulla lotta al conflitto d’interessi, ché del resto non è escluderlo a priori il modo più saggio per non affrontarlo, che dopotutto una priorità da anteporre di volta in volta la si potrà trovare sempre, e soprattutto che l’indiretto interessato, il convitato di pietra, saprà ben distinguere tra un elenco di buoni propositi per la stampa e l’agenda effettiva del governo che sarà. E d’altronde è proprio questo il motivo per cui Molteni – comasco come Claudio Borghi, consulente economico di Salvini, e sposato con Aurora Lussana, ultimo direttore di quel giornale, La Padania, guidati anni addietro dal neogrillino Gianluigi Paragone – sarebbe perfetto, come ministro della Giustizia: perché la presenza di uno come lui, di un leghista tutto d’un pezzo, va bene, e anche un po’ giustizialista, d’accordo, sarebbe comunque un buon modo per tranquillizzare Silvio Berlusconi rispetto alle eventuali fregole manettare dei grillini su corruzione, prescrizione lampo e crociate contro le tv del Cav. Il che sarebbe, a suo modo, uno dei tanti paradossi di questa strana Terza repubblica, visto che proprio Molteni, quando si trattò di votare in commissione Giustizia la legge da lui ideata per abolire il rito abbreviato per i reati gravi, stupro compreso, arrivò allo scontro frontale con Forza Italia (che al dunque, lo scorso dicembre, negò il suo sostegno) costringendo lo stesso Berlusconi a intervenire. Ma comunque la sua promozione a Via Arenula sarebbe gradita da tutti, specie se poi davvero il M5s dovesse insistere, come pare, nel rivendicare a sé – ma con un tecnico, in ogni caso – il ministero dell’Economia, che invece pareva destinato a Giorgetti. E la compensazione a quel punto diventerebbe automatica o quasi. E certo, chi lo ha visto col fazzoletto verde al collo sbracciarsi e sbraitare scomposto contro “l’invasione”, nei raduni leghisti di questi anni, chi lo ricorda col dito alzato all’altezza del viso dell’agente della Digos durante un battibecco in una manifestazione nella sua Cantù, osserva che forse non è il temperamento giusto, il suo, per un guardasigilli; ma la “stima” e la “benevolenza” che gli tributano gli avversari in Parlamento, grillini per primi, dicono di una capacità di dialogo e di mediazione non comune. Dopotutto è proprio Molteni che, sin da tempi non sospetti, va ripetendo che “i grillini non vanno demonizzati”, che “con loro al governo non ci sarebbe alcun pericolo per la democrazia”. Lo diceva pubblicamente ancora nel giugno scorso, e chissà se già immaginava che in quell’eventuale governo ci sarebbe finito, un giorno neanche troppo lontano, pure lui.