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Onorevoli vacanze romane

Valerio Valentini

C’è chi sprofonda nei divanetti del Transatlantico, chi lavora ad altro, chi sonnecchia. Da due mesi e mezzo è quasi agosto in Parlamento

Nella sala lettura, posizionata sull’estremità opposta del Transatlantico rispetto alla buvette, il deputato di Forza Italia, seduto a un divanetto, tiene aperta sulle gambe una copia del Sole 24 Ore. Gli occhiali da sole scuri, che indossa nonostante la penombra sia rischiarata appena dalla luce fioca delle poche lampade accese, non permettono di seguire lo scorrere del suo sguardo sulla pagina, sempre la stessa da ormai dieci minuti; ma la schiena rilasciata sullo schienale, le braccia cadute senza forze lungo i fianchi, il mento che si schiaccia sul collo in una posizione innaturale, fanno sorgere dei dubbi sulla sua reale attenzione. Finché un ronfo improvviso, che arriva scomposto a disturbare la quiete immota della stanza, conferma definitivamente i sospetti.

  

Nei primi cinquanta giorni che hanno seguito le elezioni del 4 marzo, la Camera si è riunita otto volte appena, il Senato ancora meno 

In uno dei tavoli accanto, Andrea Colletti nasconde a stento un ghigno divertito, sorpreso più per lo stupore di chi evidentemente per la prima volta assiste alla scena, che non per la scena in sé. Che quella stanza pensata per lo sfoglio dei giornali e la consultazione dei siti internet venga utilizzata per arrangiare una dormita alla buona, non deve essere infrequente. Tanto più in queste prime settimane di legislatura, in cui i parlamentari sono perennemente costretti all’ozio, o quantomeno all’inoperosità ai fini del pubblico interesse. E infatti Colletti non dorme, ma neppure è al lavoro come deputato. E’ indaffarato, sì, l’onorevole del Movimento 5 stelle, ma a smaltire qualche pratica arretrata del suo studio legale in quel di Pescara, e anziché fare avanti e indietro col pullman da Roma fino alla costa adriatica – “ché sarebbe una perdita di tempo, oltreché di soldi” – preferisce stare nella Capitale e venirsene qui a Montecitorio, col suo zaino, le sue scartoffie e il suo portatile, e scrivere pareri e consulenze. “Del resto – precisa, in uno sbuffo che è più di noia che di sconforto – non è che ci sia granché da fare, qui dentro, in questi giorni”.

  

Ha ragione. Nei primi cinquanta giorni che hanno seguito le elezioni del 4 marzo, l’Assemblea si è riunita otto volte appena, e quasi esclusivamente per l’elezione degli uffici di presidenza, da Roberto Fico in giù. Il che vuol dire che i deputati ricevevano in anticipo, dai vari capigruppo, l’ordine di scuderia: attendevano pazientemente la loro chiamata, sfilavano tra i banchi fin dentro i catafalchi installati sotto la poltrona più alta, depositavano la loro scheda col nome che gli era stato comunicato di scrivere, e poi uscivano, spesso senza neppure attendere l’esito del voto. E così ad esempio il 29 marzo, dopo l’interruzione per la pausa pranzo, al rientro pomeridiano Fico si è ritrovato ad annunciare i nomi dei nuovi vicepresidenti davanti a un’Aula semivuota, ché del resto era giovedì e in tanti, lasciati al mattino i trolley nell’atrio, erano ansiosi di riprenderli subito e donarsi, in treno o in aereo, al meritato ponte lungo insieme alle proprie famiglie. Le quali di certo non hanno sentito la mancanza dei loro onorevoli, visto che dal 18 di aprile al 7 di maggio, la Camera è poi rimasta deserta, o quasi (o impegnata perlopiù a votare passivamente qualche decreto presentato dal dimissionario governo Gentiloni). A qualcuno, peraltro, la lontananza dai palazzi romani non è stata solamente concessa, ma addirittura suggerita – per non dire imposta – dai vertici dei partiti. “Ci hanno detto di non farci vedere troppo, in queste settimane, dalle parti di Montecitorio”, confessava a inizio maggio una deputata leghista, spiegando che il suggerimento, a quanto era stato possibile comprendere, era arrivato dagli uffici della comunicazione del Carroccio, ansiosi di evitare in ogni modo che qualche incauta dichiarazione rilasciata ai cronisti potesse complicare, se non compromettere, le tribolate manovre in cui s’affannava Matteo Salvini nello sforzo di formare un governo.

  

I neoeletti provano l’ebbrezza della novità, facendosi selfie per la gioia dei parenti e l’invidia degli amici (ma le foto sono vietate) 

E del resto il rischio era assai scarso, dacché a gestire le trattative, oltre al segretario federale, erano solo Giancarlo Giorgetti e pochissimi altri eletti, coinvolti perlopiù in modo marginale. Non a caso gli unici realmente affannati – affannati, talvolta, anche ad esibire il loro affanno – sono proprio i parlamentari di Lega e M5s che in questi ultimi giorni sono impegnati nei tavoli di concertazione per la stesura del contratto di governo. Ed essendo, questi pochi privilegiati, quasi sempre i fedelissimi dei grandi capi, sono spesso anche gli stessi nominati nelle due commissioni speciali di Montecitorio e Palazzo Madama, le uniche finora realmente operative. Il leghista Nicola Molteni, che presiede quella alla Camera, attraversa il Transatlantico a lunghe falcate, affamato: “Ho appena lasciato la riunione sul programma, ora mangio un panino al volo e poi subito in commissione per il Def”. Di cui è relatrice la pentastellata Laura Castelli, pure lei protagonista della stesura dell’accordo grillo-leghista. Eccola, inseguita dai giornalisti, guadagnare l’ascensore con lo zaino sulle spalle, e l’aria stanca: “Sono giorni faticosissimi, abbiate pietà”.

  

E certo nelle sue parole non si fatica a rintracciare quel malcelato orgoglio di chi si sente investito di una grande responsabilità, tanto più evidente se lo si confronta con lo scoramento di quelle decine di sfaccendati malgrésoi, nei quali l’inerzia provoca accidia, e l’accidia in queste settimane si è risolta, non di rado, in frustrazione: lo si comprendeva soprattutto quando, a sparuti gruppetti, in certi giorni di semilavoro romano li si vedeva avvicinare i cronisti, e chiedere, a loro, se avessero qualche aggiornamento, ché relegati com’erano, un po’ tutti, nell’inconsapevolezza più profonda di quel che stesse accadendo, cominciavano perfino a spazientirsi. E se l’impegno per la stragrande maggioranza dei deputati è stato assai poco, in questi due mesi e mezzo di inizio legislatura, è andata ancora meglio ai colleghi senatori, convocati appena sei volte dal 4 marzo ad oggi – e spesso è stato necessario restare in Aula per qualche decina di minuti, prima di potersi congedare.

  

D’altronde a Palazzo Madama, solo a metà della scorsa settimana sono stati assegnati gli uffici ai nuovi inquilini, che ora dovranno provvedere anche a portare scatoloni e foto di famiglia da mettere sulla scrivania. Alla Camera, l’operazione richiederà ancora qualche giorno (ritardo dovuto, pare, all’inconsueto stravolgimento della geografia parlamentare causato dal 4 marzo, coi gruppi tradizionalmente più nutriti ridotti a esigue pattuglie), ed ecco perché in parecchi deputati si ritrovano costretti a scribacchiare qualche appunto sulla loro agenda o a rispondere alle mail seduti sui divani dei corridoi laterali del piano terra di Montecitorio, spesso ritrovandosi accanto, ignari, ai rivali mille volte maledetti (“Io so’ Forza Italia, e tu?”, “Io di Cinque stelle, piacere”, “Ma allora ce la stringete la mano, ormai?”). I deputati del Pd, poi, si sono visti recapitare una mail dagli uffici del gruppo: si chiedeva loro di esprimere le preferenze su eventuali compagni di ufficio; e non sono mancate, in parecchi casi, le ansie di scongiurare una convivenza molesta.

  

L’unico giorno di apparente trambusto, in questo limbo di attesa e di inazione, il 9 maggio, quando il Parlamento è stato convocato in seduta comune per eleggere un giudice della Corte costituzionale e due componenti del Consiglio superiore della magistratura. Ma la votazione era di quelle delicate, le maggioranze richieste molto alte e i rapporti di forza tra chi governa e chi sta all’opposizione ancora non definiti: per cui si è concluso con un nulla di fatto. E d’altronde, il fermento di quel pomeriggio, in Transatlantico, era più che altro dovuto alla frenesia di capire se davvero, come sembrava, di lì a qualche ora Silvio Berlusconi l’avrebbe concesso davvero, oppure no, il suo benestare alla nascita del governo tra la Lega e i Cinque stelle, e dunque tutti erano più impegnati a divinare cosa accadesse altrove, che non a seguire i lavori d’Aula.

  

Gli unici realmente affannati, i parlamentari di Lega e M5s impegnati nei tavoli di concertazione per stendere il contratto di governo 

Questione di poche ore, comunque, poi la bolla è esplosa: e del tramestio di passi e schiamazzi, delle telefonate concitate, l’indomani non restava che l’eco sbiadita, come il mattino che segue il giorno della festa. E allora ecco il deputato grillino più esperto spiegare, coscienzioso e paziente, che “Sì, la campanella suona ininterrottamente, mentre c’è votazione, e la luce arancione lampeggia a intermittenza” alle due neoelette imbellettate che lo interrogavano vanesie, e più che altro infastidite da quel gracchiare inesausto (“Era meglio se era come a teatro, che squilla tre volte e buonanotte”). Ecco la veterana di Forza Italia illustrare alla collega le doti delle bevande alle frutta che può trovare alla buvette: “Però mi raccomando, fattici mettere un pizzico di zenzero così il sapore diventa più pungente”, catechizza, prima di allontanarsi per inseguire Mariastella Gelmini, che passa di fretta insieme al suo immancabile portavoce Fabrizio Augimeri, per chiederle il permesso di assentarsi: “Oggi pomeriggio proprio non posso restare, e anche domani starei via”, tornando poi confortata dalla benevola accondiscendenza della sua capogruppo, “che cara”. I neoeletti, poi, provano inevitabilmente l’ebbrezza della novità, e nell’inettitudine coatta trovano l’occasione per soddisfare la loro curiosità – aggirandosi circospetti per i corridoi di Montecitorio – o per compiacere il loro ego e la loro ansia di like, facendosi dei selfie da postare per la gioia dei parenti e l’invidia degli amici, rischiando magari di farsi riprendere dai commessi in livrea, deferenti quanto basta, coi nuovi onorevoli, per non perdere di autorevolezza, nel momento in cui ricordano che scattare foto è vietato.

  

Apparente trambusto il 9 maggio, quando il Parlamento doveva eleggere un giudice della Consulta e due componenti del Csm

E mentre si passeggia e si chiacchiera, tra un’assemblea dei gruppi e un corso di apprendimento sulle tecniche della comunicazione o sulla procedura da seguire per presentare una proposta di legge o un emendamento (in questo, i grillini sono senz’altro i più impegnati), ovviamente non si perde occasione per dare uno sguardo al proprio sito di home banking. Il primo stipendio della XVIII legislatura ai senatori è arrivato il 20 aprile, i deputati hanno dovuto attendere una settimana in più, affrettandosi peraltro – su consiglio dei mentori più navigati – ad aprire il proprio conto presso la filiale del Banco di Napoli presente a Montecitorio o in quella della Bnl di Palazza Madama, ché le agevolazioni concesse agli onorevoli in questi sportelli non sono irrilevanti. E certo in tanti hanno esultato, nel vedere la cifra accreditata, anche se non è mancato chi ha scosso un po’ la testa. “A differenza di altri, che hanno fatto Bingo, io da manager ero abituato a tutt’altre cifre”, scherza Paolo Zangrillo, fratello del medico di fiducia del Cav. e neodeputato di Forza Italia. Compulsa il suo tablet, seduto su un divanetto del Transatlantico, un po’ sconsolato. Una vita da direttore del personale nel gruppo Fiat, poi ai vertici di Acea, la multiservizi romana, abbandonata per sua scelta all’arrivo di Virginia Raggi e dei suoi nuovi ineffabili dirigenti. “E’ pazzesco quanto tempo si perda: questa inattività è insopportabile”, si lamenta, venendo subito corretto, però, da Carlo Giacometto, suo compagno forzista e piemontese, il quale subito gli obietta che ai doveri di parlamentari non solo qui a Roma si può assolvere: ma anche lavorando da casa, impegnandosi sul proprio territorio. Stesso pensiero espresso, manco a dirlo, dal calabrese Nicola Morra, senatore grillo fattosi vedere, pure lui, solo di rado nella Capitale in queste settimane: “Piuttosto che venire a poltrire o a votare scheda bianca, meglio rimanere accanto ai nostri attivisti giù a Catanzaro”.

  

Sarà forse anche per questo che in parecchi, non soltanto tra i Cinque stelle, anziché stare a Roma a certificare la loro non essenzialità per le sorti del paese, preferiscono, dato che alle prossime amministrative manca poco, impegnarsi nella campagna elettorale dei propri comuni. Carlo Sibilia, insolitamente restio a commentare le trattative per il nuovo governo, risponde non a caso quando ormai è l’una di notte. Il 10 giugno si vota anche nella sua Avellino, e lui si esalta nel ruolo di possibile artefice della vittoria grillina: “Ho finito di lavorare solo ora, amo la mia città”, ci tiene a far sapere, rivelando forse una certa insofferenza per le lungaggini un po’ surreali in cui si risolvono i tatticismi dei leader.

  

Ma in fondo “i tempi dilatati sono inevitabili col proporzionale”, conciona il leghista Raffaele Volpi che, sprofondato su una poltrona del Transatlantico, si autodefinisce, con ingenerosa autocommiserazione, “un rottame della Prima repubblica”. E lo dice con l’aria di chi la sa lunga – come per confortare i cronisti che lo interrogano, nella sospensione placida e sonnacchiosa dell’ennesimo, inconcludente martedì mattina a Montecitorio – e forse anche con la voglia di prevenire le critiche di chi, inevitabilmente, pensa ai neoparlamentari come a dei nullafacenti stipendiati. “C’è il proporzionale, e tocca abituarsi”, ripete. Ottanta giorni di vacanza, cosa saranno mai.

  

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