Elaborazione grafica Il Foglio

Con l'euro o con la neuro. Ribelliamoci allo sfascismo

Claudio Cerasa

La lezione del 27 maggio alle classi dirigenti irresponsabili che avevano scommesso sul “lasciamoli fare”. Unirsi per non tornare indietro di 70 anni

Arrivati a questo punto della storia, dopo aver osservato il fallimento degli incapaci antisistema, dopo aver registrato che i capricci dei gemelli diversi del populismo hanno colpito al cuore la credibilità del nostro paese, dopo aver preso atto che la presidenza della Repubblica ha in extremis scelto di non abolire la presidenza della Repubblica, possiamo dire che l’unica domanda che vale la pena porsi nelle ore che ci separano dalla nascita di un governo destinato ad avere una vita non lunga è una e soltanto una. Ma alla luce di tutto quanto quello che è successo, alla luce di un programma contro gli italiani, alla luce di due leader di partito che giocano con l’eversione, alla luce di un contesto politico in cui la dialettica con le istituzioni della Repubblica è diventata un invito alla rivolta contro i garanti della Costituzione, ecco, alla luce di tutto questo siamo in grado o no di capire che cosa è successo davvero il 4 marzo del 2018? In altre parole: siamo in grado o no di comprendere che milioni di elettori si sono fatti truffare da due partiti che hanno certamente capito meglio degli altri le paure degli italiani ma che hanno dimostrato di avere una ricetta per curare i problemi del paese che rischia non di migliorare ma di peggiorare i guai della settima potenza industriale del mondo?

  

Ci si può girare attorno quanto si vuole e si possono disegnare sul terreno di gioco mille traiettorie possibili per immaginare il percorso che dovrà imboccare l’Italia nei prossimi mesi. Ma ora che la truffa delle forze antisistema è andata in onda in mondovisione e che l’incapacità di formare un governo compatibile con l’interesse nazionale è stata messa a nudo dal presidente della Repubblica – e come dimostra lo spread tra Btp e Bund che continua a salire all’impazzata e che ieri è arrivato a quota 230 ci vorrà tempo prima di convincere gli investitori stranieri e italiani che un paese che non esclude l’uscita dall’euro e che minaccia chi difende la Costituzione è un paese sul quale vale ancora la pena scommettere – quando si riandrà a votare non ci saranno più scuse per sottovalutare la pericolosità di cui sono portatori Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Prima ancora del curriculum del professor Giuseppe Conte e delle idee anti europeiste del professor Paolo Savona il vero tema che dovrà essere al centro della prossima campagna elettorale è la resipiscenza delle classi dirigenti, che in modo più o meno consapevole hanno scommesso in modo scellerato sulle forze antisistema illudendosi che una vittoria del populismo avrebbe permesso a questo di fare finalmente i conti con il principio di realtà. Mettiamolo alla prova, si è detto. Vediamo che sanno fare, si è aggiunto. Diamogli una possibilità, si è concluso. Dal giorno successivo alle elezioni anche questo giornale ha sostenuto che l’accordo di governo tra Di Maio e Salvini fosse l’unico capace di rappresentare in modo corretto il voto del 4 marzo, ma ora che i leader della Lega e del Movimento 5 stelle si sono andati a sfasciare proprio contro il principio di realtà (se avessero voluto governare, lo sappiamo, sarebbe stato sufficiente dire di sì a Giancarlo Giorgetti al posto di Paolo Savona) bisognerebbe avere il coraggio di dire la verità sui Masha e Orso della politica italiana. Partiti che minacciano di superare la democrazia rappresentativa, che promettono di sacrificare il garantismo, che sognano uno stato di polizia, che promettono di mettere a rischio lo stato di diritto, che promettono di rimettere in discussione la permanenza dell’Italia in Europa, che considerano una possibilità da non escludere l’uscita del nostro paese dall’euro e che difendono le istituzioni democratiche solo quando queste prendono decisioni gradite, non sono partiti di cui ci si può fidare. Ognuno è libero di votare ciò che crede ma da qui alle prossime elezioni c’è un tema gigantesco che andrà affrontato e che riguarda l’atteggiamento che avrà la classe dirigente del nostro paese rispetto a una campagna al centro della quale ci sarà non solo un referendum sul presidente della Repubblica ma anche un referendum implicito sull’appartenenza dell’Italia alla moneta unica. Fino al 4 marzo, gran parte della classe dirigente italiana, piuttosto che mettersi in cammino contro i populisti come fatto in Francia dall’establishment macroniano, ha scelto di rimanere in attesa e di scommettere sulla maschera fintamente presentabile di Luigi Di Maio per nascondere le politiche impresentabili del Movimento 5 stelle. Dopo la notte del 27 maggio, e dopo gli impresentabili programmi di governo espressi nel contratto contro gli italiani firmato dalla Lega e dal M5s, far finta che non sia successo nulla, far finta che possa esistere una svolta moderata del Movimento 5 stelle, far finta che possa esistere una compatibilità tra il sostegno all’industria italiana e un’uscita dall’euro, non sarebbe soltanto sciocco ma sarebbe persino un atto doloso e mai come oggi restare neutrali significa aver già scelto da che parte stare.

  

Paolo Mieli, ex direttore del Corriere della Sera, tempo fa ha ammesso che l’establishment italiano ha commesso l’errore di aver sottovalutato alcuni fenomeni gravi maturati nel nostro paese e ha riconosciuto che la borghesia italiana ha avuto “responsabilità enormi per non aver capito per tempo” quello che stava succedendo e “per aver pensato che alcuni fenomeni si potessero assecondare perché tanto poi…”. Si è fatto, ha detto Mieli durante una presentazione del libro di Alessandro Barbano, “grosso modo lo stesso errore che fecero le classi dirigenti nel 1922-1925. Pensavamo ma sì, lasciamo che la società civile si esprima, e poi ci penseremo noi che siamo forti, potenti, e con le idee chiare a ricondurre questi movimenti alla ragione. Neanche per sogno”. Al contrario di quello che racconteranno, gli sfascisti si sono sfasciati non a causa di un complotto internazionale ma a causa di una incapacità a far coesistere interesse nazionale e sovranità popolare. Se fossero coerenti fino in fondo, Luigi Di Maio e Matteo Salvini avrebbero il dovere di correre a fianco alle prossime elezioni e di aiutare il paese a fare ancora più chiarezza nella battaglia della vita sull’euro lasciando intendere in modo chiaro chi è a favore di un paese capace di trasformare l’Europa in un’opportunità e chi invece è a favore di un paese che prova a trasformare l’Europa in un alibi per non cambiare nulla. Sarebbe un sogno avere maggiore linearità nella proposta politica futura ma fino a quando il quadro politico del nostro paese non verrà aiutato a essere semplificato da una riforma elettorale maggioritaria capace di mettere dallo stesso lato della barricata partiti con idee simili sui doveri di un paese bisogna accontentarsi di quello che si ha. Bisogna sperare che Cottarelli o non Cottarelli le elezioni siano il più presto possibile. Bisogna sperare che ci sia qualcuno che sappia ricordare che il problema non è cosa può fare l’Europa senza l’Italia ma è cosa può fare l’Italia senza l’Europa. Bisogna avere il coraggio di ricordare che la battaglia della vita non è quella a difesa dello status quo del nostro continente ma è quella a difesa della Europa unita che ha nella moneta unica una straordinaria fonte di ricchezza per i paesi membri. Bisogna ricordare che non è detto che alle prossime elezioni sia scontato non rivedere una mostruosa coalizione come quella scampata per un soffio la sera del 27 maggio ma bisogna anche avere il coraggio di dire che oggi qualcosa può cambiare. Che oggi è meno facile essere neutrali. Che oggi è più difficile non discutere della truffa populista. Che oggi è più facile scegliere se stare o di qua o di là. E che oggi l’Italia non sovranista, non protezionista, non populista rimasta silente – un’Italia formata da imprese, sindacati, associazioni di categorie, vescovi, persino banche – ha tutte le carte in regola per ricordare che se davvero la prossima campagna elettorale sarà un referendum sull’euro per evitare la neuro c’è un solo modo: mobilitarsi, far cadere i vecchi paletti, superare i vecchi steccati e provare a vincere.

  

“Fino alle prossime elezioni – ha detto ieri con saggezza Carlo Calenda – conterà una sola cosa: chi vuole che l’Italia rimanga un grande paese europeo e chi la vuole riportare indietro di 70 anni. Nessun’altra differenza avrà senso finché non scioglieremo questo nodo. Vediamo che paese siamo. Uniti si vince”. Non sarà facile, non è scontato ma se c’è una rivoluzione che oggi vale la pena combattere nel nostro paese è quella di ribellarsi ai professionisti della ribellione.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.