“O noi o il nulla”. Così i grillini si preparano di nuovo a governare
“Bisogna riaprire il tavolo con la Lega, e farlo subito”, dicono dal M5s
Roma. Quando la notizia del prematuro abbandono del Quirinale da parte di Carlo Cottarelli raggiunge il Transatlantico, lo spaesamento si mescola a una strana forma di speranza, tra i deputati grillini. Tra loro si guardano, interdetti, poi interrogano i cronisti che gli capitano a tiro senza neppure provarci, a camuffare il nervosismo accumulato in questa ennesima giornata d’inconcludenza e di attesa carica di nulla. “Ma che succede?”, domanda uno dei più fidati consiglieri di Luigi Di Maio, subito esaudito, nella sua curiosità, da un suo collega. “Succede che di gente pronta a fare il ministro di un governo che verrà ricoperto d’insulti da milioni d’italiani, Cottarelli non ne trova”. Questa è la spiegazione che danno, e che si danno, i deputati pentastellati che ancora bazzicano, nel tardo pomeriggio, per i corridoi di Montecitorio. E nel darla, perlopiù, mostrano un ghigno di arrogante soddisfazione, un brivido di nervosismo trattenuto a stento. “Per noi, bisogna andare al voto il prima possibile. Il 29 luglio? Perfetto”, ripetono sulle prime, a metà pomeriggio, fedeli alle direttive impartite dall’alto.
E però, a interrogarli con più insistenza, si comprende subito che in verità non tutto appare così agevole, neppure a loro. E infatti l’auspicio confessato solo dietro garanzia di anonimato, è tutt’altro. “Bisogna riaprire il tavolo con la Lega, e farlo subito”. Ritornare insomma allo schema che da due giorni sembra essere abortito, ma che in verità ancora resiste, nei piani degli strateghi grillini. Anche perché, al di là delle dichiarazioni battagliere d’ordinanza, i conti c’è già chi comincia a farseli: “Sulla base dei sondaggi che circolano – riflette a voce alta un deputato – rischiamo di perdere, già ad oggi, tre o quattro punti percentuali. Il che significa oltre trenta parlamentari in meno”. Non pochi. Poi, tra l’altro, c’è un altro rischio. Quello di dover fare la campagna elettorale che verrà con lo spread a livelli di guardia, e una tensione sui mercati che sembrava relegata a un passato lontano. Una deputata grillina la descrive con una battuta più amara che liquidatoria, l’eventualità di una chiamata alle urne a fine luglio: “Un bagno di sudore che rischia di trasformarsi in un bagno di sangue”.
E dunque la via alternativa è obbligata. E, per quanto surreale, va percorsa in modo repentino. Sì, perché nel tardo pomeriggio l’indiscrezione diventa una certezza: al Colle non si crede più all’idea del governo tecnico, e allora si riapre la partita. Si ragiona di un incarico a Salvini, ma non si capisce bene se lo si fa nell’ottica di un governo di centrodestra, o se invece quel che si prospetta è un ritorno alla coalizione gialloverde. E’ un attimo, e si capisce che è necessaria una mossa per non restare tagliati fuori da una partita che pareva chiusa e invece potrebbe improvvisamente riaprirsi. E allora ecco che Di Maio, andato a Napoli per una manifestazione di piazza quasi volendo ostentare la sua indifferenza alle trattative romane, lo stesso Di Maio che fino a poche ore fa ruminava accuse cariche di sdegno e di rabbia nei confronti di Sergio Mattarella, improvvisamente dice che “il problema non è neanche il Quirinale”, e che anzi “sbaglia obiettivo chi lo dice”. E dunque, viene da pensare, sbaglia anche lui quando vagheggia l’impeachment – una proposta nata peraltro nella rabbia scomposta di un momento, su suggerimento di qualche consigliere subito messo sotto accusa da mezzo gruppo parlamentare – ma in fondo “neppure quello è più sul tavolo”, afferma Di Maio, che arriva perfino a parlare di una rinnovata collaborazione col Colle. Paradossi, ma tant’è. Su una cosa, invece, Di Maio resta coerente. Nel ribadire, cioè, che “dobbiamo decidere se i governi italiani li devono decidere i cittadini che votano o le agenzie di rating e la Germania”. E insomma si ritorna a ragionare di un’intesa con la Lega: a desiderarla, a propiziarla. Anche perché, di fronte all’ormai inevitabilmente fallimento dell’esperimento affidato a Cottarelli, e alla luce di uno spread che galoppa, i grillini sono concordi nell’additare la soluzione: tornare al Colle con la stessa lista dei ministri, perfino con lo stesso premier, quel Giuseppe Conte che ieri – sarà stata una coincidenza – è stato di nuovo avvistato, nel tardo pomeriggio, uscire dal palazzo dei gruppi parlamentari di Montecitorio. La convinzione, nello stato maggiore pentastellato, c’è: ora che il Quirinale non ha alternative possibili, il nostro peso contrattuale si rafforza. E allora ecco che Di Maio torna a fare la voce grossa, ma senza alcuna voglia di agevolare il ritorno alle urne: “Basta mezzucci. Una maggioranza c’è in Parlamento. Fatelo partire quel governo”. Quello, e non altri. Con anche Paolo Savona dentro? “Con anche Paolo Savona dentro”, sanciscono gli strateghi pentastellati, convinti che ora lo slogan si ribalti: “Non più o Savona o morte. Ma o noi o il nulla”. Dissimulano entusiasmo, a tarda sera. Ma è un entusiasmo che nasconde la paura: quella di veder partire un esecutivo di centrodestra, dal quale loro resterebbero fuori.