Direttorio is back: "Di Maio deve ascoltarci di più"
Le proteste della fronda grillina per una “guida più collegiale” del M5s. Ma non chiamatela segreteria
Roma. Il nome, quello ancora non è stato definitivo. E di certo richiederà uno sforzo di creatività, agli strateghi della comunicazione pentastellata. Perché ripescare il termine “direttorio” non si può: troppo evidente sarebbe il richiamo a una esperienza, peraltro non esaltante, che si era garantito di voler superare; e “segreteria”, come pure qualcuno sottovoce bisbiglia, apparirebbe una cessione troppo sfacciata a quei riti e a quei vocaboli consunti da vecchi partiti che si sono sempre additati come nefasti. E però, al di là delle dispute lessicali, la strada da percorrere, nel Movimento 5 stelle, è evidentemente tracciata. “C’è bisogno di un organo che garantisca partecipazione e collegialità nelle decisioni”, dicono ora i deputati più esperti che invocano una svolta.
Molti dei quali, non a caso, mercoledì sera sono intervenuti all’assemblea dei gruppi parlamentari per contestare il dirigismo solitario, o quasi, di Luigi Di Maio. “Devi coinvolgerci e ascoltarci di più”, ha detto al capo politico Paola Taverna, pasionaria romana (“io nun so politica”) e neoeletta vicepresidente del Senato. Seguita subito dal deputato Andrea Colletti, che ha accusato Di Maio di “circondarsi solo di yes man, come un Renzi qualsiasi”. Ad alimentare i malumori interni, in particolare, l’estrema segretezza con cui il leader pentastellato ha condotto in questi ottanta e passa giorni le tribolate trattative per la formazione del governo, confrontandosi solo coi suoi più stretti collaboratori, alcuni dei quali neppure parlamentari (il capo della comunicazione Rocco Casalino e il guru social Pietro Dettori, fidatissima vedetta romana di Davide Casaleggio) o grillini dell’ultima ora e investiti di enormi poteri direttamente da Di Maio. A farne le spese, di queste faide intestine combattute un po’ con ogni mezzo, compresi quelli più beceri e più vecchi, è stato anche Vincenzo Spadafora, braccio destro del capo dopo un passato trascorso in tutt’altri affari e in tutt’altri partiti, e anche per questo guardato con malanimo da molti, nel M5s. Anche su di lui sono piovute critiche e accuse, con tanto di dossier sui suo trascorsi da sodale di Angelo Balducci, quello della “cricca”, donati alla stampa; al punto che negli scorsi giorni, improvvisamente defilatosi rispetto alle trattative tra Di Maio e Salvini, a chi gli chiedeva un parere rispondeva stringendosi nelle spalle, giurando di essere “entrato in versione eremita”.
E insomma così non può andare: se ne è reso conto anche Di Maio, sfiancato da un negoziato estenuante che lo ha visto perdere colpo su colpo col segretario del Carroccio. Un tale livello di tensione, all’interno dei gruppi, è difficilmente sostenibile, e alla lunga rischi di deflagrare: ecco perché, terminata la partita per dare finalmente vita all’esecutivo giallo-verde, ora il capo politico dei grillina si appresta a dare qualche concessione al gruppo dei dissidenti interni. La fronda cresce, diventa impossibile ignorarla e tenerla a bada”, hanno ripetuto a Di Maio alcuni dei parlamentari a lui più vicina. E non è passata inosservata, in Transatlantico, l’esibita gentilezza con cui ieri, all’indomani degli scontri in assemblea, Dettori ha rivolto le sue attenzioni a Dalila Nesci, altra deputata intervenuta durante la riunione di mercoledì per lamentare la mancanza di condivisione di informazioni: un abbraccio, un sorriso, una lunga chiacchierata su una delle panchine nel cortile di Montecitorio. Il tutto, sotto gli occhi della pattuglia di “fichiani”, i deputati più vicini al presidente della Camera. Bazzicavano anche loro tra i divanetti e la buvette, quasi a ribadire la loro compattezza.
“Non esagerate, nel raccontare queste supposte divisioni”, metteva in guardia Angelo Tofalo, deputato grillino per cinque anni al Copasir. “L’assemblea di ieri è stato un momento di riflessione collettiva, e un modo per sfogare qualche malumore fisiologico”, spiegava. Ma al di là delle lamentele più o meno sguaiate, nei capannelli sempre più nutriti che talvolta diventano delle vere e proprie riunioni improvvisate – “riunioni di corrente”, scherza qualcuno, ma con l’aria di chi lancia un allarme assai serio – la richiesta da avanzare a Di Maio e Casaleggio si va ormai definendo in modo chiaro. “Chiederemo – dice una senatrice – che si arrivi alla costituzione di un organo direttivo ampio”. Come il fallimentare direttorio che fu? “No, molto più partecipato”, dice la grillina, che parla di almeno “una decina di persone” e di una “articolazione complessa, magari anche con sottostrutture di coordinamento per i vari settori”. D’altronde fu proprio su quella infelice intuizione del novembre del 2014, varata col beneplacito un po’ distratto di Beppe Grillo per evitare troppe fratture interne, ma dallo stesso Beppe liquidata due anni dopo quando si accorse che in verità le fratture, proprio a causa del direttorio e delle invidie che aveva generato, erano addirittura proliferate.
Proposte ufficiali, comunque, per ancora non esistono. “Vedremo, valuteremo”, prendono tempo i grillini che ci stanno riflettendo. E le idee su cui si discute, inevitabilmente, vengono ricalcate su quel che già esiste: e cioè, grosso modo, le segreterie degli altri, un tempo vituperatissimi, partiti.