I martiri della coglionaggine che credevano all'impeachment
Dal poliziotto che ha fatto un video in divisa per protestare contro la fine della sovranità del popolo al professore incaricato di redigere l’atto di accusa contro Mattarella
Roma. Le giravolte dei politici populisti creano martiri fra i loro seguaci. Sono martiri della credulità più generosa o della coglionaggine più insulsa, a seconda dei punti di vista, e hanno commesso soltanto un errore in buona fede: hanno preso alla lettera le parole dei leader senza immaginare che il giorno dopo quelli, i leader, avrebbero cambiato posizione come se nulla fosse successo e che invece loro sarebbero finiti nei guai. Le dichiarazioni sempre più forti di questi giorni erano una sceneggiata, le conseguenze per chi ci ha creduto sono reali. Non facciamo nomi, faremo soltanto esempi. C’è il poliziotto di Catania che ha fatto un video in divisa per protestare contro la fine della sovranità del popolo italiano e lo ha messo su Facebook senza sospettare che in meno di una settimana gli stessi che volevano l’impeachment del presidente sarebbero saliti al Quirinale distesi e sorridenti per proporre una nuova lista di ministri.
Credeva di essere un modello di disobbedienza civile, ma il video è stato acquisito dalla questura di Catania e probabilmente non per fargli i complimenti, mentre chi gli ha messo in testa l’idea che in Italia non c’è più sovranità popolare giurerà davanti a Mattarella. C’è il professore di Diritto civile dell’Università di Napoli che lunedì era stato incaricato in tutta fretta di redigere l’atto di accusa contro Sergio Mattarella e che davanti ai giornalisti si era sbilanciato con sprezzo del pericolo: il no del presidente a Paolo Savona era “un attentato alla Costituzione”, anzi “di più, anche una forma di alto tradimento”. Sul suo telefonino il giorno dopo è arrivata una raffica infinita di messaggini da parte degli onorevoli grillini, metà si congratulava con lui per il coraggio, l’altra metà lo richiamava all’ordine – dove “richiamare all’ordine” è un eufemismo garbato. In molti avevano compreso che l’impeachment era una minaccia destinata a naufragare presto e che sarebbe stato meglio per tutti far finta di nulla. Un’iniziativa legale che ora forse il professore di diritto non vorrà mettere nel suo curriculum, anche se ultimamente si usa metterci un po’ di tutto. Ci sono i consiglieri comunali dei Cinque stelle di Torino che lunedì hanno disertato la seduta del Consiglio per colpa della “crisi senza precedenti” e i sindaci leghisti della Lombardia che hanno sostituito i ritratti di Mattarella con Alberto da Giussano.
Per loro non ci saranno conseguenze, se non una dose di ridicolo – ma il bruciore passerà presto nella nuova Italia a trazione sovranista. Ma quelli che più di tutti patiranno gli effetti dell’esaltazione accesa dai loro leader sono i poveracci che hanno insultato Mattarella e gli hanno augurato le peggio cose sui social media e che ora sono accusati di istigazione a delinquere, attentato alla libertà e offesa all’onore e al prestigio del presidente della Repubblica. I follower che non contano nulla e si fidano ciecamente di quello che sentono. Colpo di stato, impingement, alto tradimento, scippo di sovranità ai danni del popolo italiano. Ai giornali piace ricordare che rischiano fino a quindici anni di carcere. Non è così, è un numero teorico, ma è chiaro che ci saranno guai che sarebbe stato meglio evitare: avvocati, udienze, spese. Ora si dicono dolenti e pentiti, ma è troppo tardi.