Giuseppe Conte (foto LaPresse)

Il governo Conte alla prova del contratto

David Allegranti

Siamo sicuri che il linguaggio privatistico del contratto sia più degno e rassicurante del linguaggio pubblico e politico dell’accordo di coalizione?

In tempi di trionfo dell’antipolitica, l’attuale sistema proporzionale è il peggiore che potesse capitare, perché le elezioni le hanno “non vinte” due forze che considerano il compromesso - almeno a parole - una sorta di tradimento elettorale. Di più: non riconoscendo dignità all’avversario, finché esso non diventa provvisorio alleato almeno, utilizzano tutta una terminologia demonizzante per ogni forma di accordo o incontro, da ribattezzare come “inciucio”. Con alcune sfumature ideologiche: è inciucio, naturalmente, tutto ciò che producono Pd e Forza Italia, mentre è un sano accordo - come spiega Marco Travaglio nei suoi editoriali - quello prodotto da Lega e Cinque stelle. Alla fine, però, leghisti e grillini hanno trovato, banalmente, un’intesa dopo le elezioni, come da manuale della prima repubblica, quando ci si sintonizzava sulla base dei programmi e delle persone da scegliere. 

  

 

Non c’era d’altronde altra soluzione, non essendoci stati dei vincitori ma solo dei presunti vincenti dopo le elezioni del 4 marzo. Ma come rendere digeribile per l’elettorato, specie quello del M5s, un’alleanza con qualcuno, dopo aver detto per anni che il M5s non parla con nessuno? Semplice, con un contratto, il cui valore giuridico è nullo, come avvertiva Valerio Onida in un’intervista al Sole 24 Ore, ma il cui valore politico è rivelatore: la presenza di un comitato di conciliazione nel contratto “più che sollevare problemi di costituzionalità sulle competenze di governo e parlamento, manifesta una forte diffidenza reciproca tra i due partiti e i due leader”. Luigi Di Maio e Matteo Salvini non si fidano l’uno dell’altro e ricorrono a un contratto per vincolarsi. Di Maio, con il suo lessico da azzeccagarbugli della Casaleggio Associati, rivendica la modernità del “contratto”, ma l’unica innovazione sta nel predominio del diritto privato sul diritto pubblico. Non è un caso, forse, che come presidente del Consiglio, Di Maio abbia pensato a un professore titolare di una cattedra di diritto privato, trionfo del contrattualismo, che colloca l’accordo fra parti non secondo le prerogative del “compromesso parlamentare”, già celebrato da Hans Kelsen, ma secondo l’accordo privato di due individui, in questo caso i due capi partito della Lega e del M5s. Come osserva Omar Chessa, ordinario di diritto costituzionale dell’Università di Sassari, in un intervento su lacostituzione.info, “le elezioni politiche di marzo - come è noto - ci hanno consegnato un esito che nel Regno Unito si chiamerebbe hung Parliament. Nessuna coalizione o partito ha la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari, sicché un Governo non potrebbe che nascere dal compromesso parlamentare, dall’inciucio, appunto, tra forze che durante la campagna elettorale erano avversarie. Ecco dunque che salta fuori il ‘contratto’, parola e istituto dalla indubbia ‘sacralità’”. Cosa c’è di più sacro, per l’appunto, di un matrimonio, cioè di un contratto fra due persone? “Nel sentimento collettivo imperante – scrive Chessa – i compromessi, gli accordi di coalizione, gli ‘inciuci’, ecc., essendo il frutto di negoziazioni inter-partitiche, per ciò stesso poco commendevoli perché fatte sempre ‘alle spalle dei cittadini’ e per certi versi contro la loro volontà, non hanno nulla di sacro e nobile, tanto che possono essere violati in nome di esigenze superiori (l’emergenza, la crisi, gli interessi nazionali, ecc.)”. Al contrario, “non esistono istanze superiori in nome delle quali giustificare la violazione dei contratti che le persone comuni concludono quotidianamente per regolare i loro rapporti: cosa può esserci di più importante del sinallagma, dell’assunzione di impegni reciproci, della ‘parola data’ che ha “forza di legge tra le parti”? Chiamando ‘contratto’ quello che invero non è altro che un classico accordo di coalizione post-elettorale, i partiti contraenti mirano a rassicurare l’opinione pubblica e, forse, anche se stessi”. Sicché, “dobbiamo chiederci perché la sfera pubblica avverta il bisogno di mutuare la terminologia dalla sfera privata, preferendo al lessico dello Stato quello della società civile (così come al government si preferisce la governance); e perché la logica giusprivatistica del contratto si sovrapponga alla logica giuspubblicistica dell’accordo di coalizione, quasi avesse il potere di rigenerare o redimere la sfera politica fornendole una risorsa di legittimazione extra-politica”. 

 

Di Maio - il quale per l’appunto fa parte di un partito che costantemente “abusa” di contratto fra privati - come quello imposto agli aspiranti parlamentari, è entusiasta del contratto di governo, che mette d’accordo non una comunità, o se volete il popolo, ma semplicemente due individui. Lo stesso Di Maio e Salvini. “Siamo sicuri – si chiede Chessa – che il linguaggio privatistico (e individualistico) del contratto sia più degno e rassicurante del linguaggio pubblico e politico dell’accordo di coalizione?”. In fondo, ci si mette d’accordo fra simili, perché c’è già una comunanza di fondo, un sentire comune; il contratto indica invece una certa diffidenza reciproca, che si cerca di sanare attraverso vincoli e penali. Quella su cui si basa il governo Conte non è soltanto la trovata retorica della Casaleggio Associati ma una visione privatistica che uccide la politica ed esalta il singolo, l’individuo. C’è naturalmente un’ambiguità di fondo che è tutta da sanare. Se decidi che “uno vale uno” e pensi che i cittadini italiani che hanno votato il M5s (e la Lega) abbiano, di fatto, siglato il contratto post-elettorale, allora devi cambiare modello costituzionale e inseguire quello che prevede l’elezione presidenziale diretta, la trasparenza massima. Non puoi introdurre gli elementi privatistici nelle istituzioni e non sposare una visione conseguente, cioè l’elezione diretta. C’è una strada, che è il semipresidenzialismo (e un sistema maggioritario a doppio turno), capace di ricondurre nell’alveo istituzionale le spinte sociali anti-sistemiche e populiste proprie di questo tempo. Così si irrobustiscono ipso facto quelle istituzioni che i populisti vorrebbero distruggere in campagna elettorale (“aprire il parlamento come una scatola di tonno”) e poi, dopo aver vinto, nel momento in cui si accordano per il governo, mantenere e proteggere. Avranno gli eroi del governo del cambiamento il coraggio di aprire alla riforma costituzionale?

  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.