Luigi Di Maio, Giuseppe Conte e Matteo Salvini (foto LaPresse)

Commedia italiana

Giuliano Cazzola

L’Italia è tornata a svolgere una funzione da laboratorio di involuzioni politiche

Al direttore 

Mi sento preso in giro, al pari di quel ragazzo della favola che vede passeggiare, completamente nudo, il sovrano mentre i suoi concittadini ne elogiano, a gran voce, la bellezza delle vesti e l’eleganza del portamento. Da noi la lunga crisi si è conclusa con una pochade: i due capipopolo della maggioranza – come se fossero il Gatto e la Volpe – hanno trovato un Pinocchio, gli hanno messo in mano un contratto e una lista di ministri, lo hanno caricato a molla e mandato solo per il mondo, pronti a rigirare la chiave quando il meccanismo si sarà scaricato.

 

Questo signore venuto dal nulla, si è limitato a pronunciare qualche parola (“sarò l’avvocato degli italiani’’ come se i nostri compatrioti avessero bisogno di essere difesi da un oppressore) ma è divenuto il beniamino della rete nonché l’eroe di un inedito nazionalismo italiota. Ovviamente l’intendenza televisiva – in altri tempi implacabile con i curricula taroccati dei Carneade di turno – si affretta ad adeguarsi. Ecco perché non è tanto il governo gialloverde a destare preoccupazione, quanto piuttosto il popolo italiano per la deriva culturale, etica e politica in cui si è infilato nel breve volger di qualche anno.

 

Uno della mia generazione sarebbe legittimato – per averla vissuta in prima persona – a ricordare (con nostalgia?) la sollevazione popolare contro il governo Tambroni nel luglio del 1960. Ma senza andare troppo indietro nel tempo, quando mai gli italiani avrebbero tollerato che un sodale di Marine Le Pen sedesse sulla poltrona più importante del Viminale? Eppure quel ruolo Matteo Salvini se lo è guadagnato perché il suo partito – alleato lo ripetiamo del Front National e degli altri movimenti europei di estrema destra – è in rapidissima ascesa nei sondaggi elettorali, tanto da poter “cannibalizzare” in breve tempo non solo gli scampoli di Forza Italia, ma anche l’alleato pentastellato (come è avvenuto nelle elezioni successive al 4 marzo).

 

Nel dibattito degli ultimi giorni ci si consola esaminando il “pedigree” di qualche ministro, piazzato in zona Cesarini in dicasteri delicati, come se avesse la possibilità di gestire in piena autonomia le scelte politiche nel suo settore, a prescindere dallo stesso Dna dell’esecutivo: il primo interamente populista, sovranista, contrario alla Ue e all’euro che abbia vinto le elezioni e sia al potere nel Vecchio continente. L’Italia è ritornata a svolgere una funzione da laboratorio di involuzioni politiche. Un secolo fa diede i natali al fascismo; oggi ha messo in campo una coalizione antisistema (né di destra né di sinistra perché contemporaneamente di destra e di sinistra) destinata a divenire il punto di riferimento di fenomeni analoghi diffusi più o meno in tutti i paesi. Questa Italia a me fa paura: la società ha subito uno smottamento profondo; ha ribaltato e ripudiato valori consolidati; si è assuefatta all’acqua dei pozzi avvelenati dall’odio, dall’antipolitica, dal giustizialismo e dalla invidia. Un paese abituato a riconoscersi soltanto nella Nazionale azzurra (Winston Churchill diceva che l’Italia combatte le guerre come se fossero partite di calcio e queste ultime come se fossero guerre), si è scoperto sciovinista, circondato da nemici, oppresso dalle demoplutocrazie, rinchiuso nel campo di concentramento dell’euro, desideroso di affermare un vago primato dell’interesse nazionale con la medesima foga con cui la “buonanima’’ rivendicava uno “spazio vitale’’. Un ultimo particolare curioso. Alla fine della scorsa legislatura tutti i tg e i talk-show, versavano calde lacrime sulla mancata approvazione della legge sullo ius soli. Oggi non se ne parla più. Papa Francesco, che accusò pubblicamente Donald Trump di non essere cristiano perché voleva costruire muri (al confine con il Messico) e non ponti, ora se ne sta in silenzio ad ascoltare gli ukase di Salvini, a due passi dal Vaticano.