Perché mentre “il paese va a fuoco” il Pd sembra assistere assente
Analisi feroce di un deputato dem sulle spaccature del partito (e qualche idea per provare a ripartire, subito)
Al direttore - Se qualche anno fa, prima che cominciassi a fare politica a tempo pieno, fossi stato uno dei tanti amici e conoscenti che mi hanno contattato in questi giorni, avrei nutrito lo stesso smarrimento, la stessa stessa angoscia e certamente la stessa rabbia che sento nei loro messaggi e nelle loro telefonate. Il paese va a fuoco e il Pd sembra come assente, incartato su se stesso. Drammaticamente vero, ma non inspiegabile. Parto da quello che è successo durante l’ultima assemblea, che non è stato solo il frutto di un momento follia o di sconsideratezza, ma la conseguenza di una situazione estremamente complicata, che ha radici profonde che non affondano soltanto nella sconfitta elettorale.
Nel partito esiste una spaccatura verticale e radicale di visione politica, esistono alcune linee di faglia che che rendono difficile anche il mettersi insieme al solo scopo di fare opposizione e che possiamo disegnare lungo queste longitudinali:
Non è morto il set di valori che il Pd e la sinistra democratica rappresentano: l’europeismo, l’antifascismo, il desiderio di combattere le diseguaglianze, l’idea di una società più aperta e più giusta, la fedeltà alla Repubblica e alle sue istituzioni, il ruolo centrale del lavoro e quello sociale dell’impresa
Chi crede che siamo arrivati al 18 per cento “per colpa di Renzi” e chi, guardando ai risultati elettorali della sinistra in Europa e di Leu in Italia, crede che siamo arrivati al 18 per cento “soltanto grazie a Renzi”.
Chi vorrebbe rivedere criticamente le principali scelte politiche del recente passato – dalla Fornero al Jobs Act alla Buona scuola – e chi invece rivendica quelle scelte come fondamento di ogni futura strategia.
Chi pensa che il M5s sia “una costola della sinistra” e chi pensa che il M5s sia una pericolosissima variante contemporanea dell’estrema destra populista.
Ci si divide tra coloro che avrebbero voluto un’alleanza, programmatica o addirittura strategica, con il M5s e coloro che invece vedevano questa possibilità come l’estrema iattura, il suicidio politico della sinistra riformista e dei suoi valori in Italia.
C’è chi risolverebbe la situazione attraverso un’alleanza delle forze europeiste e responsabili al di là e oltre la divisione destra/sinistra e chi pensa che invece il Pd debba spostarsi su un fronte di sinistra più tradizionale, in una manovra simile a quella compiuta da Jeremy Corbyn nel Labour britannico.
Chi sostiene che si debba dare ascolto alla richiesta di “protezione” che arriva dalla società a valle della peggior crisi dal Dopoguerra e chi invece sostiene ancora la validità di un modello di società aperta che tenga insieme “opportunità + accompagnamento”, secondo la definizione di Luigi Marattin.
Chi crede che il modello di sviluppo debba essere quello di una crescita sostenibile che porti a una migliore e più equa distribuzione delle risorse, e chi crede che invece si debbano introdurre nella nostra visione elementi di pauperismo, sulla falsariga della “decrescita felice” propugnata dai grillini.
A questo si aggiunge che la storia del partito ha conosciuto tensioni profondissime a seguito della nomina di Matteo Renzi a segretario dal 2013, che ha comportato una certa mutazione della base elettorale e di militanza del partito e che è stata vissuta dalla componente “socialdemocratica”, fin lì tradizionalmente maggioritaria, come una specie di “scalata ostile” e quindi mai accettata fino in fondo come un semplice evento fisiologico di alternanza con una linea liberaldemocratica.
Annoto un’altra questione: la natura “democratica” del partito ha comportato che il dibattito interno, di per sé in teoria una ricchezza da rivendicare, si sia trasformato in una babele incontrollabile. Anche quando il segretario nazionale ha avuto dalla sua il 70 per cento o più di iscritti ed elettori delle primarie e il partito è stato al governo del paese, mai il Pd si è presentato all’Italia in modo compatto e con un messaggio univoco, coerente e riconducibile chiaramente al Partito. Durante gli anni di governo Renzi-Gentiloni, non è stato inconsueto che il Pd avesse ufficialmente e pubblicamente due posizioni opposte in campo e ancora oggi ci sono autorevoli esponenti del partito che fanno apertamente campagna elettorale per l’avversario politico senza conseguenze. Qualcuno ha detto addirittura, voce dal sen fuggita, che durante l’ultima assemblea si è assistito in diretta alla morte del Pd. Che se in quella sede, come già successo in Direzione nazionale, si ha paura di contarsi è perché si sa in partenza che quel conteggio non è destinato a individuare delle differenze di opinione dentro una comunità, ma a segnare definitivamente i confini di una spaccatura irreparabile.
Sono un ottimista per natura e penso che le cose quando paiono morte è forse solo perché si trasformano: “Quello che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla”. Ciò che certamente non è morto è il set di valori di fondo che il Pd e la sinistra democratica rappresentano: l’europeismo, l’antifascismo, il desiderio di combattere le disuguaglianze, l’idea di una società più aperta e più giusta, la fedeltà alla Repubblica e alle sue istituzioni, il ruolo centrale del lavoro e quello sociale dell’impresa, il perseguimento di una crescita sostenibile. E sono valori che non solo meritano, ma che è doveroso difendere in Parlamento e nel paese.
Dopodiché, per diventare farfalla, ci vorrebbe appunto un cambiamento rivoluzionario: organizzativo, e di atteggiamento. Lo dico con chiarezza: non credo alla “collegialità”, termine oggi molto in voga, che nasconde una forma di consociativismo tra capicorrente il cui abbandono è sicuramente uno dei migliori lasciti di Renzi come segretario del Pd. Non è di collegialità che abbiamo bisogno, ma di civiltà nei nostri rapporti; poi di apertura, di regole e di un senso di appartenenza che, se ancora c’è, si fa veramente fatica a riconoscere.
Credo che il partito vada rifondato a partire dalla sua struttura organizzativa. La nostra forma-partito appartiene a un altro secolo, ci impedisce di fare tesoro della enorme mole di conoscenza che la nostra comunità custodisce e ci rende troppo spesso ostaggi di una rete clientelare ormai assolutamente intollerabile. Dovremmo chiederci, e chiedere a chi lo fa, perché si prende la tessera del Pd. Quali sono le motivazioni per cui lo si fa, cosa può e vuol dare alla propria comunità chi si decide a farlo. Riconoscere che un partito la cui organizzazione è al 100 per cento territoriale e in nessun modo orizzontale, un partito organizzato esclusivamente sulla prossimità fisica tra gli iscritti e non su una rete di temi e su campagne come usa in questo secolo, non può funzionare.
Credo anche che abbiamo bisogno oggi, in una fase che non può che essere di ricostruzione e di rielaborazione politica, di una leadership più concava che convessa, più yin che yang. Qualcuno che ascolti, dentro il partito e fuori. Qualcuno che sia bravo più a cucire che a tagliare. Qualcuno che tenga insieme, che sappia mettere una mano sulla spalla di tutti. Papa Luciani disse una volta con grande scandalo che Dio non era un padre ma una madre. Ecco, per rimettere in carreggiata la sinistra riformista non ci vorrà addirittura l’intervento di Dio; ma una madre, quella tornerebbe di sicuro molto utile. Certo il Pd nella sua versione attuale, quella vista in azione nell’assemblea del 19 maggio, non serve a fare niente di quello che deve: né a fare opposizione oggi né a prepararsi per governare al prossimo giro. Il congresso deve arrivare a decidere con nettezza come si sta insieme e dove si va. Non ci serve di certo la lista dei riposizionamenti delle nostre personalità tra le varie correnti, vade retro Satana all’ennesimo conteggio delle tessere, teniamoci alla larga dal gioco delle alleanze senza contenuti al solo fine di raggiungere un potere che oggi – e in questo senso direi pure “per fortuna”: in un certo senso è un’opportunità – non abbiamo più. Quello che serve è trovare subito le modalità e le ragioni dello stare insieme – nostro e di tante persone che ci hanno abbandonato o non sono mai arrivate fino a noi – in un futuro che si annuncia difficile. Tutto il contrario, insomma, di quello che abbiamo visto di recente. Se ce la facciamo, è segno che siamo vivi e che ci siamo.
Ivan Scalfarotto è deputato del Pd