Massimo Garavaglia (foto LaPresse)

Massimo Garavaglia, il pupillo di Giorgetti pronto per il Mef

Valerio Valentini

Il sospiro di sollievo (non solo leghista) per la promozione dell'ex assessore al Bilancio di Maroni a viceministro al dicastero dell’Economia

Roma. La sorpresa non sta, adesso, nel vederlo finalmente tirato in ballo in questa ridda scomposta per le nomine di sottogoverno. La sorpresa, a sentire i suoi colleghi leghisti, era semmai, prima, nel constatare la persistenza del silenzio attorno a lui, protrattasi – almeno così pareva – ben oltre i termini consigliati dalla prudenza. Ma in verità, che Giancarlo Giorgetti lo tenesse lì pronto, il nome di Massimo Garavaglia, al riparo dalle speculazioni dei giornali e dei potenziali concorrenti, lo sapevano un po’ tutti, nel Carroccio. Tanto che ora che la sua promozione a viceministro – con delega al fisco, sembrerebbe, ma non è escluso anche un incarico specifico sulla spending review – al dicastero dell’Economia è cosa fatta, e in parecchi, non solo di fede padana, tirano un sospiro di sollievo.

  

La svolta del resto è arrivata proprio quando Giovanni Tria, nell’intervista al Corriere di domenica, ha di fatto liquidato l’inquietante libro dei sogni vagheggiato dai sovranisti più esagitati nella pattuglia grillo-leghista, esibendo invece una cautela tale che, al confronto, perfino un Padoan rischiava di passare per uno spregiudicato euroscettico. E’ stato lì che tutto s’è fatto chiaro, che è diventato evidente come per una poltrona di prestigio, in Via XX settembre, Garavaglia fosse assai più adatto rispetto ad Armando Siri o Claudio Borghi, teorici del nuovo corso leghista, quello incarnato da Matteo Salvini, i quali non a caso in quelle stesse ore manifestavano una certa insofferenza – una delusione che spuntava d’irritazione – sulle parole pacate di Tria. “Massimo, del resto, è un amministratore, mica un filosofo…”, sospirano i suoi amici di partito, come a dire che la dissennatezza è un lusso che Garavaglia, per dieci anni sindaco, per cinque assessore all’Economia della più importante regione italiana, membro del Cda della Cassa depositi e prestiti e dell’Agenzia italiana del farmaco, non s’è mai potuto permettere. “Tra il dire e il fare gh’è el mètes a drèe”, ama non a caso ripetere il deputato del Carroccio, milanese nato a Cuggiono – classe ’68 – ma cresciuto a Marcallo con Casone, comune di seimila abitanti, a ovest del capoluogo, che ha governato dal 1999 al 2009 nel mentre che cominciava la sua precoce carriera parlamentare: deputato nel 2006 e capogruppo del Carroccio in commissione Bilancio, due anni dopo diventa il senatore più giovane della storia della Repubblica e nel 2013 viene rieletto. Non ci torna, però, a Palazzo Madama, perché Roberto Maroni lo vuole nella sua giunta al Pirellone. E’ lui, esperto di federalismo fiscale e di costi standard, a gestire i dossier più complessi che riguardano l’autonomia lombarda.

  

“Preparato, competente, sempre sul pezzo”, dicono di lui non solo gli amici, ma anche gli avversari del Pd e perfino quelli del M5s: la stessa grillina Laura Castelli, che se lo ritroverà accanto al Mef, pare dispensi ottimi giudizi sul suo conto. Bocconiano come Giorgetti, Garavaglia a differenza di Giorgetti oltre alla specializzazione in Finanza aziendale alla Bocconi vanta anche una seconda laurea in Scienze politiche, e stavolta alla Statale. E’ vicepresidente della commissione Bilancio in Senato, nel novembre del 2011, quando riceve la visita dei commissari della Troika, un paio di giorni prima della caduta del governo Berlusconi: “Loro già sapevano – racconterà poi – che sarebbe arrivato Mario Monti, e ci minacciarono che, se lui non avesse ottenuto la fiducia, loro non avrebbero comprato i nostri titoli, mandandoci in default”. Segue insomma la teoria del complotto internazionale, per ricostruire quelle settimane convulse, così com’è convinto che a suggerire indirettamente a Mario Draghi la strategia del quantitative easing sia stato, nell’ottobre del 2011, George Soros. “Neppure i leghisti migliori – scherza d’altronde un suo estimatore del Pd – sono immuni a due tipi di diffidenza: quella per la Bce e quella per i meridionali”. Anche se, a sentire gli alti papaveri del M5s, la vera pecca nel curriculum di Garavaglia sta in un’indagine a suo carico: un’accusa – assai traballante, a ben vedere – di turbativa d’asta per una telefonata (forse) di troppo all’ex vicegovernatore lombardo Mario Mantovani. Ma non sarà su quello che si dovrà cercare un compromesso. Semmai, un chiarimento dovrà esserci intorno al “reddito di sudditanza” – così Garavaglia ebbe definire a metà marzo, proprio sul Foglio, il caposaldo della propaganda grillina, liquidandolo come “una iattura per il sud” peraltro “infattibile dal punto di vista finanziario”. Dovrà ricredersi in fretta, evidentemente, o quantomeno omettere di ripetere quei commenti, fiducioso che in fondo ne passerà di tempo, seguendo il cronoprogramma prudente di Tria, prima di arrivare a ragionare davvero dei 700 e rotti euro a persona che Luigi Di Maio vorrebbe regalare ai suoi elettori. E chissà che nel frattempo a preoccuparsi non siano invece i dipendenti di Via XX settembre, visto che nel 2008, già ossessionato dalla spesa improduttiva e dal sovrabbondare del personale nei pubblici uffici, un giovane Garavaglia si chiedeva indignato “a cosa diavolo” servissero “tremila persone in un palazzo in cui non si fanno neppure bene i conti, visto che abbiamo il debito pubblico più alto del mondo”. Ma in fondo quelli erano i tempi di Roma ladrona. Un’altra epoca.