Onestà? Che freddo

Guido Vitiello

Quando la satira di Roma antica già sferzava: “Lo stadio oggi ingoia la metropoli intera”

Qualcuno ha detto che la storia si può considerare una sequela ininterrotta di proclami che l’uomo sta vivendo un momento epocale; e in effetti il narcisismo corporativo di ogni generazione resiste cocciutamente all’ipotesi che ci sia capitato di nascere e morire in un lasso di tempo qualunque. Ma a furia di ripeterci che viviamo in tempi interessanti (forse con qualche ragione in più dei nostri padri, non certo dei nostri nonni), ci scordiamo che viviamo anche in tempi noiosissimi.

  

Osservando con gli occhi di un moralista classico la vicenda della giunta Raggi – e dico di più: l’intera epopea grillina, forse anche tutta la capitolazione dell’Italia seguita allo scempio del 1992 – quel che ci appare non è tanto un capriccioso intrecciarsi di uomini e di casi, quanto lo svolgimento prevedibile, scolastico, pedante come una dimostrazione matematica, noiosissimo appunto, di una premessa aberrante com’è quella degli onesti al governo in quanto onesti. E quando ti rifilano un libro così soporifero, di cui indovini il finale dalla prima frase, speri almeno che ci siano le figure. E’ così che ho deciso di sperperare qualche altro risparmio per procurarmi un vecchio bellissimo libro, “L’onestà muore di freddo”, stampato nel 1959 dell’editore Cino Del Duca. Era un’antologia di poeti civili, epigrammisti e storiografi compilata dal latinista Luca Canali. Appena quattro anni erano passati dall’inchiesta di Manlio Cancogni sull’Espresso – “Capitale corrotta, nazione infetta” – e sembrava un buon momento per rileggere i fustigatori di Roma antica, così buono che il primo capitolo s’intitolava: “Nulla di nuovo”.

  

“Oh potessi fuggire oltre i Sàrmati e il Mare glaciale, ogni volta che vedo la faccia di bronzo di chi fa il moralista e l’asceta, e gavazza nelle orge”. Così Giovenale, a cui si deve anche il titolo del libro: “L’onestà dei costumi è lodata, ma muore di freddo”, probitas laudatur et alget. D’altronde, così ragionano i nuovi potenti, specie se sbucati dal nulla: “Perché non dovrebbe esser lecita loro ogni cosa, se li alzò dalle stalle alle stelle la Sorte in vena di scherzi?”. Il poeta dava pure un presagio sinistro: “Lo Stadio oggi ingoia la metropoli intera”. Dove leggi, ti ritrovi nelle cronache: “Nessuna distinzione fra galantuomini e avventurieri; le cariche pubbliche, premio alla virtù, ottenute invece a forza di intrighi”; “cominciarono ad agitare la plebe con accuse contro il Senato, poi ad accendere sempre più gli animi con largizioni e promesse, divenendo in tal modo essi stessi famosi e potenti” (Sallustio). E si potrebbero piluccare decine di frasi qua e là, nella traduzione deliberatamente allusiva che ne fece Canali. Il solito libro – ma almeno ci sono le figure, splendide. Decine di disegni e acquerelli di Mino Maccari, con le riproduzioni a colori incollate sulle pagine, come si faceva nei vecchi libri d’arte. Il lettore dalle mani bucate che cercasse un conforto figurativo a un’attualità fin troppo pronosticabile, e desolante nella sua meccanicità, metta da parte venti o trenta euro e accaparri per sé una delle copie che ancora circolano tra gli antiquari.

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