Il drammatico censimento della demagogia populista
Rider, ong, rom. Le urla come spia di una discontinuità difficile. Il lato inconfessabile del governo Di Maio-Salvini
Meglio parlare di rider che parlare di Ilva. Meglio parlare di ong che parlare di Libia. Meglio parlare di rom che parlare di Iva. Meglio parlare dei Mondiali che parlare di sanzioni. Meglio parlare di ciò che si deve fare piuttosto che ammettere ciò che si può fare. Meglio alzare la voce sulle cose piccole, trasformandole in cose grandi, che usare la voce per affrontare le cose grandi, trasformando i temi veri in temi piccoli. Sono passate tre settimane dalla nascita di un governo nato per risanare “con urgenza” un’Italia sfasciata dai governi precedenti, ma nel giro di pochi giorni gli anti sistema arrivati al governo per creare discontinuità con il passato si sono resi conto che per il primo governo populista d’Europa la più grande difficoltà sarà non far rimpiangere i governi del passato.
E inevitabilmente più si andrà avanti con il tempo e più sarà chiaro che per governare senza sfasciare un paese esiste solo una via possibile: creare attenzione mediatica intorno alle proprie famigerate intenzioni rivoluzionarie (chiudere i porti, schedare i rom, dichiarare guerra mediatica alla Francia) per non ammettere che la discontinuità vera la si può immaginare solo sulle cose che non contano troppo e soprattutto che costano poco.
Sono passati venti giorni dal primo giorno di Conte premier e in questi venti giorni gli azionisti di maggioranza del governo della discontinuità non hanno fatto altro che promettere continuità. Il governo Di Maio-Salvini avrebbe dovuto rimettere in discussione l’euro ma i ministri No euro sono stati confinati in ministeri senza portafoglio (e per fortuna senza euro). Il governo Di Maio-Salvini avrebbe dovuto essere il governo della svolta economica ma nell’indifferenza generale prima il presidente del Consiglio ammette che la prossima legge di Stabilità verrà fatta “nel rispetto degli impegni europei per quanto riguarda i saldi 2018-2019” (i saldi previsti nella tabella del prossimo Def saranno quelli previsti nella tabella di finanza pubblica del governo precedente) e poi il predecessore del ministro dell’Economia, ovvero Pier Carlo Padoan, ammette che con Giovanni Tria, che non ha nessuna intenzione di eliminare le vecchie clausole di salvaguardia sull’Iva, “ci siamo trovati su una lunghezza d’onda molto simile”.
Il governo Di Maio-Salvini avrebbe dovuto essere il governo della svolta sui migranti ma a parte la demagogia sui porti e le alleanze farlocche in Europa è lo stesso Salvini ad avere ammesso che “il fenomeno migratorio ha registrato una diminuzione dall’anno scorso, grazie a operazioni utili e intelligenti di chi mi ha preceduto”. Il governo Conte avrebbe dovuto essere il governo della svolta sui vaccini, come promesso in campagna elettorale da Lega e M5s, e della svolta sulla Buona scuola, come promesso in campagna elettorale da Lega e M5s, ma il ministro della Salute, appena insediato, ha tenuto a far sapere che “noi nel Movimento 5 stelle non abbiamo mai detto nulla contro i vaccini”, e uno dei sottosegretari all’Istruzione, Salvatore Giuliano, ha fatto subito sapere che no, “la Buona scuola non va cancellata”.
Il governo Di Maio avrebbe dovuto essere il governo della svolta su partite delicate come Ilva e Alitalia ma su Ilva (il 30 giugno scadrà il termine per la cessione) il successore di Calenda ha fatto capire di essere intenzionato a portare avanti la linea Calenda e su Alitalia (il 31 ottobre scade il termine per la vendita della compagnia) il successore di Calenda ha scelto di non avere una linea diversa rispetto a quella del suo predecessore. Il governo Conte, infine, avrebbe dovuto rimettere in discussione le odiate sanzioni alla Russia eppure proprio ieri il consiglio Ue ha esteso di un anno, fino al 23 giugno 2019, le sanzioni alla Russia, ovviamente con il sì dell’Italia.
Il tempo ci dirà se i populisti sceglieranno di truffare gli elettori risolvendo con tempismo emergenze fittizie o decideranno di truffare l’Italia creando emergenze vere in nome della discontinuità. Ma nell’attesa di capire come farà il partito della ragione coccolato da Sergio Mattarella (Tria/Moavero/Giorgetti) ad avere la meglio sul partito dei like coccolato da Salvini e Di Maio (che governa pensando più a come migliorare i sondaggi che a come migliorare l’Italia) si può dire già oggi che anche se a costo zero il populismo rappresenta per l’Italia un pericolo a prescindere dal suo impatto sui conti pubblici.
Avere la consapevolezza di rassicurare gli investitori stranieri solo quando si dà l’impressione di non mantenere le proprie promesse è rassicurante se si pensa all’economia ma è meno rassicurante se si pensa a quali potrebbero essere le conseguenze: creare un clima da stato di polizia utilizzando la demagogia populista per giocare in modo spregiudicato con il rancore e con la paura. E se dopo appena venti giorni dalla nascita del governo un ministro annuncia una riforma per superare la democrazia rappresentativa (referendum per la democrazia diretta) e un vicepremier annuncia un censimento per razza sui Rom (un conto è promettere di combattere l’illegalità dei campi rom, un altro è alimentare la pancia razzista del paese arrivando a dire che “purtroppo i rom italiani dobbiamo tenerceli a casa”) non ci vuole molto a capire che il populismo può essere un pericolo anche se impatta su un costo diverso rispetto a quello della finanza pubblica: il costo della democrazia e il costo dello stato di diritto. Il governo è partito ma il lavoro di bilanciamento che spetterà a Sergio Mattarella in realtà è appena cominciato. E chissà se il partito del Quirinale, alla lunga, aiuterà il governo a durare a lungo, o diventerà un pretesto per farlo durare poco.
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