La democrazia vulnerabile
Benché fragile e incompiuta, resta il modello migliore per guardare al futuro
Pubblichiamo alcuni stralci de “La democrazia e i suoi limiti”, la nuova edizione aggiornata del saggio di successo scritto dal professor Sabino Cassese, già giudice della Corte costituzionale. Il volume (133 pp., 13 euro) è edito da Mondadori.
Segnali preoccupanti in giro per il mondo
Il presidente francese Emmanuel Macron, parlando il 7 settembre 2017 nella culla della democrazia, ad Atene, sotto il Partenone, ha osservato che “en Europe aujourd’hui, la souveraineté, la démocratie et la confiance sont en danger”. “Democracy Dies in Darkness” è il nuovo motto usato sulla prima pagina dal Washington Post. Già nel 1996 il presidente turco Erdoğan aveva dichiarato che “la democrazia è un mezzo e non un fine, come un tram da cui si scende quando si è arrivati a destinazione”.
Solo circa metà dei centonovantatré stati del mondo è governata in forma democratica e il numero dei paesi democratici non aumenta; anzi, stati dove si svolgono regolarmente elezioni, come Turchia, Polonia e Ungheria, divengono illiberali, limitando la libertà di espressione, la libertà di associazione o l’indipendenza del sistema giudiziario, e quindi minando la stessa democrazia, che non può sopravvivere senza questi suoi strumenti.
Anche in paesi di antica democrazia, come il Regno Unito, vengono scoperte limitazioni della democrazia, come la privazione del diritto di voto per i detenuti, qualunque sia il reato da essi commesso; o come gli Stati Uniti, dove la democrazia sta diventando plutocrazia, e il rappresentante della nazione viene eletto dalla maggioranza degli stati, anziché dalla maggioranza della popolazione, tanto che l’ultimo presidente, Donald Trump, è stato eletto nonostante avesse ottenuto quasi tre milioni di voti popolari in meno della sua concorrente.
Nei paesi sviluppati circa un quarto dell’elettorato si astiene dal voto. In Svizzera i votanti sono circa la metà degli aventi diritto
Anche i meccanismi decisionali delle democrazie, e non solo i partiti e i parlamenti, si rivelano deboli. Il Regno Unito e la Cina hanno affidato allo stesso architetto il compito di progettare e costruire rispettivamente il quinto terminal dell’aeroporto di Heathrow a Londra e il terzo terminal dell’aeroporto di Pechino: il primo è stato costruito in vent’anni, il secondo in quattro.
La partecipazione popolare
Il referendum costituzionale italiano del dicembre 2016 è stato vinto da oltre diciannove milioni di votanti, che rappresentano solo il 37 per cento dell’elettorato. Donald Trump è stato eletto quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti nel novembre 2016 solo con un quarto dei voti dei cittadini americani. Al referendum sull’appartenenza all’Unione europea svoltosi nel giugno 2016 nel Regno Unito ha optato per uscire il 52 per cento del 72 per cento degli aventi diritto al voto. Non una maggioranza, ma una minoranza, ha così preso una decisione le cui conseguenze riguardano l’intera Europa e non erano state messe in conto né dai favorevoli, né dagli avversari dell’uscita dall’Unione. Lo stesso può dirsi per il presidente turco Erdogğan: eletto nel 2014 dal 52 per cento del 76 per cento degli aventi diritto al voto, nel luglio 2016 ha imposto rigide limitazioni sulle opposizioni, con effetti gravi sia per le minoranze interne, sia per l’Europa e per l’equilibrio politico di questa parte del mondo. Alle elezioni presidenziali francesi del 2017, Macron ha avuto al primo turno poco più del 24 per cento dei voti e al secondo turno poco più del 66 per cento del circa 74 per cento dei partecipanti al voto.
Nei paesi sviluppati circa un quarto dell’elettorato si astiene dal voto. Nelle democrazie più antiche e consolidate, come la Svizzera, i votanti sono circa la metà degli aventi diritto.
In Italia la partecipazione elettorale, all’inizio della storia repubblicana superiore al 90 per cento, è scesa di venti punti dopo circa un trentennio e nel 2010 era ormai inferiore al 64 per cento. I votanti alle ultime elezioni regionali siciliane sono stati il 46,7 per cento dell’elettorato.
La partecipazione politica attiva, misurata in un’indagine dell’Istituto nazionale di statistica (Istat), è ridotta all’8 per cento delle persone con più di quattordici anni (quella sociale è tre volte più ampia), mentre la partecipazione politica passiva è del 77 per cento. Questo vuol dire che molti si interessano alla politica, ma non vogliono impegnarsi attivamente in essa.
Dalla “democrazia dei partiti” si è passati ai partiti “liquidi”. I partiti sono in crisi nella società, forti nello stato. In Italia, recentemente, d’un colpo è emerso un movimento di ribellione che coinvolge da un quarto a un terzo dell’elettorato. Sempre nel nostro paese, in centocinquant’anni si sono succedute tredici formule elettorali e ben tre dal 1993.
La crescente domanda di democrazia e i pericoli della sua drammatizzazione
Mentre la partecipazione popolare diminuisce, cresce una domanda di maggiore democrazia. I cittadini vogliono partecipare alle decisioni, sono scontenti delle classi dirigenti, le contestano, vogliono stabilire canali diretti con il potere.
La richiesta di people’s empowerment, di maggiori diritti – ma disgiunti dai doveri, con i quali hanno formato per due secoli quasi una coppia fissa –, di sempre maggiori prestazioni da parte dello stato, produce frustrazione, protesta, ribellione, perché è difficile soddisfare tale crescente domanda. Quando questa, invece, viene soddisfatta, produce sovraccarico di governo, elefantiasi, inefficienza, che sono all’origine di ulteriore insoddisfazione popolare. Come ha osservato Norberto Bobbio, “nulla rischia di uccidere la democrazia più che l’eccesso di democrazia”. La tentazione di una democrazia illimitata è pericolosa.
Questi sono segnali preoccupanti, che riguardano il funzionamento sia della democrazia diretta (i referendum), sia della democrazia indiretta (le elezioni). Da molte parti tali segnali vengono, anzi, drammatizzati. Si registrano crisi, disillusione, tradimento, incompiutezza della democrazia. Questa avrebbe esaurito il suo capitale di fiducia, rimanendo come una costruzione di facciata. Il demos avrebbe perso la partita nei confronti delle oligarchie. Alla società passiva si accompagnerebbero paternalismo statale, spostamento del baricentro dei poteri pubblici dal legislativo, che rappresenta il popolo, all’esecutivo, in cui prevale l’elemento oligarchico. Dunque, gli organismi rappresentativi sarebbero in crisi, con il pericolo di autoritarismi di tipo nuovo, verticalizzazione del potere, presidenzialismi di fatto, collasso dei corpi intermedi (specialmente partiti e sindacati). La politica, da strumento per imporre l’osservanza delle leggi, sarebbe divenuta lo strumento per derogare alle leggi. Vi è chi vede in questo un disegno di “plutocrazie” internazionali, di tecnocrazie sottratte a ogni controllo popolare, con una solida base nel mondo della finanza globale. Viene ricordata l’irridente frase di Bertolt Brecht: il governo dovrebbe sciogliere il popolo ed eleggerne un altro. La passione e la retorica di chi drammatizza non aiutano, però, a capire quel che succede e rischiano di oscurare i veri problemi.
I sistemi democratici hanno dimostrato di possedere una capacità ineguagliata di garantire sicurezza e giustizia
La democrazia è stata oggetto anche in passato di critiche o di interpretazioni dirette a ridimensionarne la portata. Ricordo qui la frase pronunciata da un giova- ne repubblicano nel Luciano Leuwen di Stendhal: “quella dolce miscela di ipocrisia e di menzogna che viene chiamata governo rappresentativo”. Invece, nella Montagna magica di Thomas Mann, uno dei protagonisti, Settembrini, afferma: “La democrazia non ha altro significato che quello di una correzione individualistica a ogni assolutismo statale”.
Inoltre, in molti paesi, la democrazia ha conosciuto diverse crisi. Quella più importante e discussa ha coinvolto, intorno alla prima guerra mondiale, diversi paesi ed è stata prodotta dall’allargamento del suffragio e dallo sviluppo delle grandi organizzazioni di massa, partiti e sindacati. Più tardi, politologi americani hanno definito quella italiana e quella giapponese del secondo dopo- guerra “quasi-democracies” o “uncommon democracies”, perché per mezzo secolo libere elezioni hanno portato al governo sempre lo stesso partito.
Se è vero che una buona parte dell’elettorato non partecipa al voto, è anche vero che vi sono istituzioni rappresentative sia nazionali sia locali, giudici che controllano, libertà di opinione e di associazione, e che gli stati amano proclamarsi democratici (secondo l’art. 1 della nostra Costituzione, “l’Italia è una Repubblica democratica”).
Inoltre, chiediamo sempre di più alle istituzioni e ne misuriamo il rendimento non in base alle loro risposte, ma in relazione alle nostre crescenti aspettative, e sulla scorta di criteri variabili (una volta vogliamo che siano più efficienti, un’altra che ascoltino maggiormente i cittadini, un’altra ancora che lascino più libertà).
Infine, i sistemi democratici hanno dimostrato di possedere una capacità ineguagliata di garantire sicurezza e giustizia e di distribuire i risultati dello sviluppo economico (anche se questa funzione è stata svolta male negli ultimi decenni, suscitando la reazione di movimenti antisistema).
Bisogna, quindi, provare a storicizzare e a contestualizzare, con lo stile dell’entomologo piuttosto che con quello del predicatore. Vale più che mai la raccomandazione di Giacomo Leopardi: “Chi non sa circoscrivere, non sa fare”.