Tempo di avvocati

Stefano Cingolani

Dal premier Conte fino a Mr. Wolf. I gialloverdi al governo spalancano le porte al mondo del diritto. E il Censis studia il nuovo establishment

Negli Stati Uniti dicono che c’è un avvocato sotto ogni pietra, in Italia adesso c’è un avvocato sopra ogni poltrona. Giuseppe Conte, presidente del Consiglio, è “l’avvocato del popolo” (così si è definito nel suo primo discorso). Tre ministri sono suoi colleghi a cominciare da Alfonso Bonafede (allievo di Conte), Giulia Bongiorno (alla Pubblica amministrazione) e Erika Stefani (Affari regionali). Un professorone, Guido Alpa, già capo del consiglio nazionale forense, ha fatto da mentore al capo del governo. Lo studio Previti e Sammarco ha lanciato Virginia Raggi. E poi è spuntato Luca Lanzalone, il Mr. Wolf, quello che risolve i problemi scabrosi, come lo ha chiamato il costruttore Luca Parnasi che con lui intratteneva fitti rapporti d’affari. Non che manchino gli avvocati nella società civile. L’Italia è il terzo paese europeo per concentrazione di avvocati con una media nazionale di quattro ogni mille abitanti. Gli iscritti all’albo sono 246.786, il 53 per cento uomini. E i gialloverdi hanno spalancato loro le porte.

   

Una media nazionale di quattro ogni mille abitanti. Gli iscritti all’albo sono 246.786. Hanno sempre fornito ampie leve di uomini politici 

Il variegato mondo del diritto ha da sempre fornito nella storia d’Italia ampie leve di uomini politici. Un tempo provenivano soprattutto dal Mezzogiorno, nell’Italia liberale e con l’avvento della sinistra storica, erano il perno di quel sistema che venne chiamato clientelare. Nel 1921 Pietro Calamandrei scrisse un articolo intitolato “Troppi avvocati” per protestare contro tutti quei legali che “riempiono le aule del Parlamento trasformandolo in Camera d’avvocati”. Chissà cosa direbbe oggi. Nei primi due decenni della Repubblica si facevano le ossa nei partiti di massa, soprattutto nella Democrazia cristiana, ma anche nel Partito socialista e nel Partito comunista. Erano grandi filtri, quei partiti, e nello stesso tempo formidabili scuole dove si insegnava l’arte del governo, che non è forse la disciplina alta che piaceva a Benedetto Croce, ma resta senza dubbio una professione complicata che richiede doti e tecnicalità particolari. La cosiddetta Seconda Repubblica, collassati i partiti della Costituente, ha aperto la società politica alla società civile senza apprendistato e spesso senza mediazioni. Silvio Berlusconi porta nel Palazzo gli imprenditori, Romano Prodi i tecnocrati, soprattutto economisti e manager.

  

Nell’autunno di Montesquieu, anche il potere giudiziario scavalcava i confini, ma quella era l’epoca dei magistrati, anzi dei procuratori: antimafia, antiterrorismo, anticorruzione. Da Luciano Violante ad Antonio Di Pietro, da Pietro Grasso a Franco Frattini, da Giuseppe Ayala a Felice Casson, tanto per fare alcuni nomi tra i più noti, hanno occupato posizioni di primo piano in Parlamento e nel governo. Nella scorsa legislatura ben 18 erano al Senato e alla Camera in vari partiti, per lo più Pd e Pdl. Poi ci sono i sindaci come Luigi De Magistris a Napoli o i presidenti delle regioni come Michele Emiliano in Puglia. La possibilità di passare dall’una all’altra funzione senza una vera soluzione di continuità, ha creato spesso una sovrapposizione tra poteri costituzionali e no, denunciato tra gli altri anche da un magistrato di punta come il veneziano Carlo Nordio, da poco in pensione, che ha voluto mantenersi fuori da ogni intreccio perverso.

  

Chi sono, adesso, i pilastri della nuova casta (perché c’è sempre una élite e sempre rischia di rinchiudersi in se stessa in un avvitamento corporativo)? Potremmo chiamarli giurocrati, cioè giuristi che si trasformano in burocrati, abbracciando così anche giudici e magistrati, o avvocastri, avvocati che fanno i ministri. Chissà come li definirebbe Giuseppe De Rita, infaticabile creatore di neologismi che in queste settimane si sta dedicando a una riflessione sulla formazione della classe dirigente. Con un ciclo di tre seminari, infatti, il Censis nel suo mese del sociale si è concentrato sulla “cultura del governare”, dalle sue “variabili fondamentali” a come “rifare l’establishment”.

  

Le classi dirigenti della Seconda Repubblica che sono state rifiutate avevano una strategia di medio periodo. Oggi solo reazioni difensive 

Ripercorrendo la propria esperienza giovanile, De Rita ricorda quando, negli anni 50 e 60, lui e gli altri giovani ricercatori della Svimez o dell’Iri, venivano incaricati dal professor Pasquale Saraceno di scrivere capitoli dei grandi documenti di piano e di un programma di un singolo governo. E vede davanti a sé i giovani che si sono messi a copiare e incollare il voluminoso programma del Movimento 5 stelle. Che differenza c’è tra allora e oggi? Ricorda De Rita: “Il professor Saraceno ci spiegava il senso tecnico-politico dell’operazione (concordato più in alto con Ezio Vanoni prima, poi con Ugo La Malfa e Aldo Moro) e ci lasciava all’allegro lavoro di compilazione dei singoli capitoli. Tutti con grande lena scrivevamo pagine e pagine, un po’ su tutto. Io mi occupai persino della politica del balletto classico e degli enti lirici. Poi i nostri capi settore (da Giorgio Ceriani Sebregondi a Nino Novacco a Massimo Annesi) rivedevano gli scritti emendandoli e cancellandoli prima di portare tutto a Saraceno che alla fine rivedeva minuziosamente tutto e poi portava ai politici un testo compatto e senza sbavature”.

  

Difficile che sia avvenuto lo stesso per il programma del governo gialloverde. I tempi cambiano, i politici anche. Quanto ai “tecnocrati” e agli economisti, sono stati per lo più svillaneggiati ed espulsi dal processo decisionale per recuperarli bon gré mal gré, con l’intento di tenerli in una posizione ancillare. Vedremo se Giovanni Tria, Paolo Savona, Enzo Moavero e lo stresso Giuseppe Conte accetteranno di fare i pedissequi esecutori, è una delle dinamiche più intriganti all’interno di questo esecutivo. Almeno finora. Formare una squadra di governo significa mettere insieme un personale fatto nello stesso tempo di competenze tecniche e di capacità politica. Non è facile, tanto meno per chi pretende di cambiare l’establishment. E “il metodo Lanzalone” certo non aiuta. Introdotto a quanto pare da Beppe Grillo e Davide Casaleggio, dovrebbe essere un modo per saltare le vecchie mediazioni e creare quel meccanismo verticistico di trasmissione del comando che loro chiamano “democrazia diretta”. In che cosa consiste? E’ presto detto: scovare un personaggio poco conosciuto, ma ambizioso, abile e capace di tessere una buona tela di relazioni, imporlo a un movimento ormai uso a obbedir cliccando, e affidargli le rogne più scabrose, con l’obiettivo di farne un referente efficace quanto fedele, in grado di agire nella linea d’ombra che separa il potere legale e quello reale. E gli avvocati, si sa, dall’altro sono avvezzi proprio a lavorare in quel confine poroso tra vizi privati e pubbliche virtù (o viceversa, da questo punto di vista il rapporto è davvero biunivoco).

  

La storia dell’avvocatura si confonde con la storia della società politica. La democrazia diretta ateniese implicava che ciascuno si difendesse da solo, così era diventata una professione quella degli scrittori di arringhe, i logografi, la web democrazia ha generato balbettanti cinguettii, forse nasceranno anche qui i ghostwriter per i social media. Intanto, però, la professione si prende la rivincita. Anche il rapporto tra gli avvocati e il potere è antico. A Roma il processo era un rito pubblico di prim’ordine, ma agli avvocati è riconosciuto un onorario solo con Claudio. Diocleziano, il primo nella storia a controllare prezzi e salari, impose un calmiere, con i bizantini arrivano gli elenchi e poi gli ordini, che nel Medioevo tendono a conquistare sempre più autonomia, come in Francia dove diventano una sorta di contro-potere rispetto a quello dei feudatari e dei re. Fu la rivoluzione del 1789 ad abolire gli ordini. In Italia fu il fascismo a sottomettere gli avvocati a un sindacato di regime.

  

Berlusconi porta nel Palazzo gli imprenditori, Prodi i tecnocrati, soprattutto economisti e manager. Poi viene l’epoca dei magistrati 

Vincenzo Arangio-Ruiz, giurista e politico liberale (nel 1925 fu tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce, poi ministro subito dopo la liberazione), scrive che “l’avvocato deve avere queste doti fondamentali: cultura generale e specifica, attitudine alla logica e all’oratoria, probità e correttezza tanto nei rapporti coi clienti quanto nei rapporti coi colleghi e coi magistrati. L’indipendenza e il disinteresse sono sempre stati e devono essere due punti cardinali nell’esercizio dell’avvocatura. L’indipendenza determina l’imparzialità, necessaria a chi deve curare la protezione legittima degl’interessi che gli sono affidati. Il disinteresse conferisce al medesimo scopo ed elimina la possibilità di deviazioni tanto nella consulenza quanto nell’assistenza giudiziaria. Il disinteresse non esclude, naturalmente, il legittimo compenso, ma fa sì che l’avvocato debba rifuggire da qualunque forma speculativa nell’esercizio della professione: ciò che è legittimo per il commerciante o per altre categorie di persone in tema di accaparramento degli affari e di conquista della clientela deve essere rigorosamente evitato nell’esercizio dell’avvocatura”.

  

Proprio per garantire il disinteresse, le leggi professionali, sia all’estero sia in Italia, stabiliscono delle speciali incompatibilità: per esempio che l’esercizio della professione di avvocato o di procuratore è incompatibile con l’esercizio del commercio in nome proprio o in nome di altri, con la qualità di mediatore e con qualunque impiego retribuito che non sia di indole scientifica, letteraria o giornalistica. Non è certo il caso dei Lanzalone & C. Ma nemmeno di altri ben più autorevoli esponenti della classe forense. Nel 2012 la nuova legge che ha disciplinato la professione in sostanza regolamenta una figura moderna di avvocato salariato. Oggi la carriera si fa negli studi, i grandi studi dove non ci sono solo i partner, gli associati, ma anche contratti di lavoro subordinato. Un marxista la chiamerebbe “proletarizzazione”; intanto anche una delle più illustri professioni liberali diventa sempre più industriale e sempre più multinazionale, e ciò non vale solo per chi si occupa di rapporti d’affari in senso stretto.

  

Davvero l’avvocatura, nelle sue forme antiche e ancor più in quelle moderne, può diventare la fucina principale del nuovo establishment? Le elezioni sono avvenute sull’onda di un fuoco sacro e di una furia forsennata contro i politici della Seconda Repubblica e contro i tecnici rivendicando il primato di una politica “vendicatrice”, contro regole esterne considerate opprimenti anche quando erano solo razionali, contro le grandi centrali burocratiche pensando che comunque “l’intendenza seguirà”, sottolinea De Rita, “in particolare abbiamo perseguito la morte del potere di quell’ambiente trasversale fatto di amministratori, funzionari, banchieri, industriali, intellettuali che ci si è abituati a definire sprezzantemente establishment o addirittura casta (di fatto comunque il vero potere antico di stabilizzazione dei processi decisionali)”.

  

Di fronte a questo lavacro distruttivo, non basteranno certo gli avvocati. La ricostruzione sarà lunga, complessa, lenta. “Dovremo aspettare” secondo De Rita. Che cosa? Che crescano le capacità tecnico-politiche; che qualche segmento di alta burocrazia “si allinei ai nuovi potenti con più o meno interessato trasformismo”; soprattutto, che “la qualità di chi vuole governare venga certificata dalla dinamica delle cose”. Il fondatore del Censis si è sempre definito un “continuista” e negli incontri di maggio per il mese del sociale ha ribadito la sua convinzione che ”il continuismo è la vera logica di evoluzione”. In contraddizione con l’immagine di rottura che prevale oggi in Italia.

  

De Rita: “Abbiamo perseguito la morte del potere di quell’ambiente fatto di amministratori e funzionari che ci si è abituati a definire casta”

Nei “Quaderni del carcere”, Antonio Gramsci, analizzando i temi della classe politica e della irruzione delle masse come protagoniste, scrive: “I vecchi dirigenti intellettuali e morali della società sentono mancarsi il terreno sotto i piedi, si accorgono che le loro prediche sono diventate estranee alla realtà, forma senza contenuto, larva senza spirito, prediche appunto; di qui la loro disperazione. I rappresentanti del nuovo ordine in gestazione, d’altronde, per odio ‘razionalistico’ al vecchio diffondono utopie e piani cervellotici. Quale il punto di riferimento per il nuovo mondo?”. Per lui quel punto di riferimento era il lavoro. Difficile riproporlo, non solo perché è cambiato nella forma e nella sostanza, ma perché nel sottosuolo della società ha scavato come una vecchia talpa il rifiuto del lavoro, della sua centralità politica, del suo valore morale. Le parole che scriveva Primo Levi nella “Chiave a stella” esattamente trent’anni fa (“l’amare il proprio lavoro costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra”), sembrano venire dalla preistoria. E tuttavia resta vero che la ricostruzione di un establishment si fa attorno a un progetto.

  

Le classi dirigenti della cosiddetta Seconda Repubblica che oggi sono state rifiutate avevano una strategia di medio periodo. Sia il centro-destra di Silvio Berlusconi sia il centro-sinistra di Romano Prodi negli anni 90 perseguivano, ciascuno a suo modo, la stessa meta: far uscire l’Italia dal collasso politico e morale provocato da Mani pulite, agganciandola al grande flusso della globalizzazione, attraverso una nave più ampia e robusta, cioè l’Unione europea. L’adesione all’euro aveva questa ispirazione di fondo. Era più scettico Berlusconi, come del resto Antonio Fazio, Cesare Romiti o altri autorevoli esponenti dell’establishment convinti che fosse una fuga in avanti perché il paese non era pronto. Lo stesso Prodi avrebbe voluto attendere e venne spinto ad aderire fin dal primo momento dall’avventurismo della Spagna guidata dalla destra di José Maria Aznar. In ogni caso, nessuno metteva in dubbio l’obiettivo di fondo. Oggi non è così. Entrata in crisi quella prospettiva, non se ne vede un’altra. Non prende corpo nessun progetto, solo una reazione difensiva, un ritorno catenacciaro a un antico quanto improponibile: “l’Italia prima di Maastricht”, come sostengono i gialloverdi. Anche questa mancanza di ancoraggio rende più difficile capire come, con chi e per fare cosa prenderà corpo una nuova classe dirigente.

  

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