Rita Pavone e la montante, pacchiana, nostalgia per Prima Repubblica
La truffa del kitsch ai tempi del governo gialloverde
Per chi attraversa certi quartieri di Roma, compresi quei Parioli che nelle fantasie perverse dei nuovi populisti sono diventati una roccaforte della sinistra mondiale, gli striscioni e le scritte murali dei fascisti sono un elemento ordinario della tappezzeria urbana. Siamo assuefatti da decenni al rumore di fondo di quegli slogan dalla forma sempre uguale e sempre tronfia. Onore ai camerati caduti. Onore ai martiri delle foibe. Onore a Paolo Di Nella. Onore a Léon Degrelle. Onore alla tigre Arkan. Onore a Dominique Venner samurai d’Occidente. Onore, onore, dappertutto onore. A volte ti prendono alla sprovvista, ma neppure tanto, come lo striscione di CasaPound: Patria, socialismo o muerte - Onore a Hugo Chávez. Altre volte ti provocano smorfie di disgusto, almeno per il tempo di un semaforo rosso, come quando a Ponte Milvio, dopo la strage di Macerata, comparve un lenzuolo con la scritta nera: Onore a Luca Traini. Poi però un giorno leggi su Twitter la grida quotidiana dell’iperministro factotum – Onore a Rita Pavone, che non si inchina al pensiero unico! – e non sai bene come reagire, ti tocca constatare che tutti quegli anni a fare su e giù col motorino per i sottovia di Roma non sono serviti a nulla.
Onore a Rita Pavone. Certo, l’abbiamo vista fare il saluto romano in un’uniforme del Reich sui manifesti della “Feldmarescialla” di Steno, ma nel film era solo un travestimento, e poi son cose del 1967. E anche dopo che ti hanno detto della sua scaramuccia contro i Pearl Jam sui migranti, non ti basta per ricondurre a una ragionevolezza qualunque quel proclama così stridente, dissonante, sottilmente perturbante di Salvini. Ed è bene che sia così: perché nell’assunzione di un’innocua diva della Prima Repubblica nel pantheon eroico dei nazionalisti potrebbe esserci un bandolo per decifrare il nuovo corso.
Della serie : ma farsi gli affari loro, mai ?!
— Rita Pavone Official (@Rita_Pavone_) 27 giugno 2018
Dovremo prestare più attenzione alla pacchianeria che cresce intorno a noi: dalla misura della pacchianeria avremo la misura dei mali che si preparano. Del resto, il kitsch è un intruso nei manuali di estetica, il suo propagarsi non riguarda il bello o il brutto, riguarda la decomposizione delle civiltà, come intuì Hermann Broch nel fatidico 1933: “Tutti i periodi storici in cui i valori subiscono un processo di disgregazione sono periodi di grande fioritura del kitsch”, che è il tentativo disperato di restaurare per via estetica quel che è storicamente e spiritualmente perduto (il kitsch è quasi sempre un neo-qualcosa). La grande fonte della pacchianeria politica di questa stagione è la nostalgia della Prima Repubblica, delle banconote da mille lire, delle botteghe chiuse la domenica. E finché questi sentimenti se ne stanno sotto chiave in una canzone di Checco Zalone, non c’è da allarmarsi. Quando però intessono la melodia delle campagne elettorali, quando i leghisti trionfano alle amministrative agitando il miraggio di un ritorno alla Pisa tranquilla degli anni Ottanta (che era governata dai comunisti, ma tant’è), quando dopo i ballottaggi un giornalista cattolico inneggia alla sua Siena tornata dopo decenni “civitas Virginis”, quando tutta questa paccottiglia spirituale viene smerciata per le strade come una droga scadente, c’è da tremare.
Di quel mondo perduto non si può riacciuffare che l’ombra, piangendo lacrime dolci su qualche vecchio sceneggiato Rai; ma l’impuntatura caparbia e disperata di riportarlo in vita renderà necessaria la truffa quotidiana del kitsch. Quanto più salirà la consapevolezza che quell’Italia non tornerà mai più, tanto più dovranno soffocarla con la violenza estetica; che presto, quando la tavolozza è quella di una società e di una nazione, chiamerà altre violenze. “Le tenebre non avevano mai dovuto tollerare un commercio così intenso con dei piccolo borghesi, tanta perfidia, volgarità e provincialismo ostinato, tanta Edda in pirografia, tanti motti in sassone”, scriveva Ernst Bloch nei primi anni Trenta, davanti alla marea montante del kitsch nazista. Altri climi, altri tempi. Noi abbiamo un ministro che giura in piazza con il rosario e il Vangelo, e che indica l’avvenire della patria risorgente scandendo un motto italico e marziale: Onore a Rita Pavone!