E poi ci dicono che siamo razzisti
Gita a Pontida. Tra la bambina con la ruspa e l’anziano col cartello con la lista degli “amici degli invasori”
Pontida. Arrivo a Pontida e chiedo indicazioni a un vecchio in pantaloncini scozzesi: “Scusi, la festa della Lega?”. “E’ lì sulla statale, stanno già rompendo i coglioni bloccando la strada a chi deve andare a lavorare”. “Ma come, di domenica?”. “Sempre, e poi scusi eh, io non sono contro i partiti ma questi hanno rubato, io me lo ricordo il Gionni” e qui inizia a storcere la bocca e farmi l’imitazione di Umberto Bossi, “la Lega ce l’ha duro, ce l’ha duro…”, poi torna normale, “non hanno fatto un cazzo con Berlusconi per vent’anni… scusi eh, e mo’ ci riempie Pontida coi pullman di terùn; scusi… ma lei di dov’è?”. Lo saluto e posteggio, ringraziandolo per l’incipit riassuntivo. Pontida è il Pride dei leghisti. Qui possono essere finalmente loro stessi, liberi e senza vergogna. Ieri svenivano nel fango per vedere Bossi fare il gesto dell’ombrello ai terùn; oggi svengono per un selfie con Salvini. Trascinati via in barella sotto quaranta gradi. Oltrepassi il cancello “prima gli italiani” e sei dentro. Ci si ripara all’ombra del tendone stando stretti come polli. I più fortunati agguantano una birra o una granita (solo alla menta verde criptonite), gli altri gironzolano per gli stand incuriositi da quelle scritte estere: “Marche”, “Puglia”, “Calabria”. Sono i nuovi leghisti venuti dal sud in bus, un po’ abbronzati. Le magliette hanno sostituito i cartelli e ti identificano come facevano i gruppi rock: “La pacchia è strafinita”, “#leghistaruspante”, “Non razzisti ma realisti” qualche “No euro”, tanti “Piccoli padani crescono”, e una infinità di nomi di comuni, o meglio “territori” di cui tutti vanno fieri. In molti sono ancora in verde e con lo stemma “Padania libera”, sono quelli che erano leghisti quando ancora non era cool. Il vecchio folklore delle corna e delle parrucche è marginale, si diranno che è una carnevalata con cui non possono essere credibili ora che vogliono la rivoluzione in Europa: la lega delle leghe. In compenso si vedono tantissimi sandali, zatteroni, magliette elasticizzate infiammabili (ma che non vanno a fuoco perché dopo dieci minuti sono fradice di sudore): è tutto un made in China o made in Bangladesh. Sotto i quaranta si fanno brutti tatuaggi con le rose e le simboli da gratta e vinci, sopra i quaranta non vanno dal parrucchiere o dal dentista. Sono i nostri white trash, anche se scriverlo vale automaticamente la qualifica di radical chic, giornalaio, fichetto da salotto. L’opinione comune, a dar retta all’applausometro, è che la loro vita migliorerà senza immigrati. Sognatori.
Salvini è onnipresente come un dittatore coreano: sulle magliette, nelle frasi tormentone, sul monitor che anticipa la giornata con filmati coi cavalli di battaglia, un po’ guest star un po’ influencer. E’ soprattutto nei gazebo: nelle bandiere, negli striscioni, sui portachiavi, sulle cartoline (il merchandising che fa cassa perché le tessere del partito fatturano quanto i compact disc). Il segreto del successo? “E’ un uomo vero”, mi dice un ex assessore che s’è commosso quando ha visto il cartello di Brindisi: “Stiamo veramente cambiando il paese”, e mi racconta di quando faceva i comizi e non c’era nessuno ad ascoltarlo perché alle sue spalle capeggiava la notizia dei diamanti della Lega “Se vuole ho le foto”. Va bene così. Mi dicono che ci sono persino i profilattici brandizzati Lega. Di sicuro non li hanno usati ieri sera i giovani leghisti. Una mia fonte, un giovane uscito dai corsi di formazione per diventare prestigiosi portaborse, in cui paghi per farti insegnare che l’unità d’Italia è stata un errore e che possiamo cavarcela fuori dall’euro, mi spettegola che i discorsi in tenda della sera prima riguardavano quasi solo le negre che fanno servizi a venti euro e le italiane che li fanno a 100. Ma sempre aggiungendo “io non ci sono mai stato”. Diamogli il tempo di diventare vecchi leghisti, e magari cambieranno idea.
“Sa, da quando Salvini ha tolto il logo celtico e il nord dal simbolo, cambiando anche il verde in blu, siamo diventati un movimento nazionale”, mi dice il mio cicerone-stregatto che avevo perso nella calca. (Così nazionale che Zaia si lamenterà: “Ho fatto tutte le Pontida ma non ho mai fatto sei chilometri di coda, grazie a tutti per la presenza”). A ogni passo mi spiega i monumenti: “Questa è Santa Barbara, la conosce?”. No. E allora inizia a raccontare che è la protettrice degli artiglieri. E parte con la battaglia di Legnano. E mi chiedo cosa possano rappresentare Alberto da Giussano o la riedificazione di Milano per un militante molisano o calabrese, quando l’unico collante collettivo, come dimostra ogni arringa, è l’immigrato che riceve soldi per non fare un cazzo in piscina mentre una mamma italiana rovista nella spazzatura per dar da mangiare al figlio disabile. Viene in mente quel libro polemico di David Rieff, figlio di Susan Sontag, “In Praise of Forgetting”, in cui sostiene che non tutta la memoria storica vada mantenuta e che è meglio dimenticare o rimuovere alcuni simboli per far meno danni. E’ in fondo quel che ha fatto Salvini quando ha incluso il resto d’Italia nel progetto federalista: via quel “nord” e il Sole delle Alpi, che tanto non era manco padano.
Anche se qui la memoria non sembra un problema: ne hanno poca e sono pronti a scordare ciò che non fa comodo. Sui lati sono allestite tende con i prodotti tipici regionali (il localismo come alternativa all’industria, al capitalismo e al modernismo parte dalla tavola come ci spiega lo storico Alberto Grandi). Mi avvicino a quello Campano e stanno mangiando la mozzarella di bufala, la prima domanda che mi fa un signore con la cartina della Calabria sulla maglietta con Salvini e un cuore è: “Ma quando finisce qui?”. “Non so, non è ancora iniziato. Ma Salvini dovrebbe parlare verso l’una e mezza”. Quello si gira, manda giù un pomodoro, e dice all’amico “Poi ce ne andiamo subito”. Sono terrorizzati dalle code chilometriche che hanno trovato salendo, ore per essere qui a mangiare in un piatto di plastica sotto 36 gradi di sole in quel che ha tutta l’aria d’essere una sagra paesana, e manco è in montagna come speravano. Poco distante c’è il banchetto veneto. Un signore recita una sorta di poesia sovranista e secessionista un po’ vecchio stile, infatti dice “l’invadente cultura musulmana non deve intaccare quella padana”, e il campano sputa la mozzarella e dice “padana? italiana!” e lui, “ah sì, poi cambiamo il testo”. Si riprende dalla gaffe e ne fa un’altra “siete più svegli dei lombardi”. “Io sono lombardo, piacere”. Che fatica essere padroni a casa propria. La moglie lo trascina via per un braccio. Una calabrese taglia corto e conclude: “Siamo tutti italiani: anche se io vedendo che al nord le cose funzionano ho votato subito la Lega anche quando non mi volevano a diciotto anni. Volete un po’ di ’nduja?”.
C’è la bambina con la ruspa, c’è l’anziano col cartello al collo con la lista degli “amici degli invasori”, ci sono i centauri, ci sono le sciure che usano le bandiere come bastoni per non cadere e si tengono strette la borsetta, c’è l’albanese che regala un ritratto a Salvini e lo ringrazia per liberarci dagli immigrati. A ogni angolo c’è qualcuno che parla di stranieri, di barconi, di giunte di sinistra che non aggiustano le strade ma sono amiche dei negri e li mantengono coi soldi pubblici. Ogni discorso viene preceduto da “e poi ci dicono che siamo razzisti”, un po’ risentiti. Intanto sul palco partono con i nomi minori. Inizia Andrea Crippa che s’è dimenticato il testo e quindi ci “parlerà col cuore”, come una soubrette. Dice “dall’Italia scappano giovani a fare lavori che all’estero non vogliono più fare”, e nessuno gli urla che siamo gli immigrati degli altri, e lui continua con le richieste e le priorità: i crocifissi a scuola, festeggiare la Pasqua, la festa della mamma e del papà, Oriana Fallaci nel programma delle superiori.
Salvini passa tra la folla e tutti vogliono toccarlo, stringergli la mano, dirgli “mio capitano”. Lo chiamano per nome e hanno richieste su tutto da “come in Ungheria, fuori tutti”, “meno tasse Matteo, abbassa le tasse”. “Gli orari delle discoteche, Matteo, chiudile”. E nonostante lui continui a ripetere che ci tiene tanto alla definizione di populista (e lo dice come quelle che ti ripetono allo sfinimento “sono autoironica” e vorresti prender loro le mani e dire: ti credo, ma perché non provi con gli antidepressivi?), cade nel tranello del complesso d’inferiorità intellettuale. Striscioni che citano Orwell (“In tempo di menzogna universale, la verità è un atto rivoluzionario”) e quando sale sul palco parte col pantheon: Gianfranco Miglio, Olivetti e Walt Disney. Un pastrugno postmoderno di chi ha googlato “aforismi ad effetto” per far bella figura.
I popoli in Europa non sono mai stati in conflitto come lo sono oggi (non è vero, a meno che l’unica versione storica accettabile non sia quella da Disneyland leghista: due guerre mondiali conteranno pur qualcosa in più rispetto ai musi lunghi tra lui e Macron). Di qui noi leghisti brava gente, di là quelli per cui non esistono doveri ma solo diritti, niente regole, la pacchia, omosessuali che comprano donne per figliare, donne che non fanno figli perché sono povere (e povere che invece ne fanno dieci ma solo perché devono spedirceli via gommone). Cita Simone Veil e ne fa una paladina sovranista e no global (se la prende anche con le multinazionali come la Coca-Cola che sponsorizzano i gay pride).
Gli immigrati, i rifugiati, i negher, i froci, i rom (o i zingari, come dicono i veneti) sono tutti invasori. Sono di troppo. I gay sono anormali (anche se sul palco si dice “sarò anormale io, ma”); i vaccini sono troppi per “i nostri bambini”. Le porte sono aperte “per i richiedenti asilo”, ma poi subito dopo si dice “porti chiusi”. Mica si può cedere ai loschi traffici tra coop rosse e scafisti: è causa loro se “ai nostri bambini disabili” mancano i fondi d’assistenza. Hanno veramente la percezione che a loro va tanto male perché c’è qualcuno che sta peggio e dovrebbe stare a casa propria. Così come ti dicono che il crollo della natalità è colpa della Bonino, e una tizia gira tappezzata con le foto di Eluana Englaro, e tu chiedi, ancora?, e ti risponde “la verità non muore mai”. Forse la base del sacro popolo di Pontida non è altro che vecchi cattolici di destra antimoderni ma che in più hanno la xenofobia, perché cresciuti nei pollai senza mai leggere nulla, e perché alla carità cristiana o all’Europa preferiscono il proprio orto. “La Lega non è cambiata: il mondo è cambiato”, dice Salvini dal palco; ma i leghisti sono sempre gli stessi che vedono nemici ovunque, anche se oltre alla polenta c’è la ’nduja. E quando Salvini prima di andare ad abbracciarli sorridente dice: “Quei populisti sovranisti fascisti egoisti razzisti che sono invece padri e madri di famiglia normalissimi”, ha ragione lui: lo sono. Ma le cose non si escludono.