L'ascesa globale del nazionalpopulismo
Teocrazie, dittature di ritorno, la democrazia liberale ovunque in ritirata. E la crisi investe anche le nazioni che quella democrazia hanno reinventato e praticato nell’epoca moderna. Uno sguardo sull’occidente malato
Pubblichiamo il testo dell’intervento di Claudio Martelli, mercoledì 20 giugno 2018 al Teatro Franco Parenti di Milano, per il ciclo “La resistibile ascesa del nazionalpopulismo”.
La democrazia liberale è in ritirata in tutto il mondo. La lunga fase in cui un numero sempre più grande di nazioni si dava costituzioni e istituzioni democratiche, si esercitava in libere elezioni e costruiva uno stato di diritto sembra esaurita. Peggio, nazioni che avevano intrapreso quella strada rallentano o addirittura invertono quel percorso e scelgono o subiscono ritorni autoritari.
E’ il caso di una nazione come la Turchia di Erdogan ieri sulla soglia dell’Europa e che dal tentato golpe del 2016 ha tratto la giustificazione per un’impressionante repressione della vita democratica, dei diritti civili, della libertà di espressione e d’informazione.
E’ il caso della Russia di Putin. La più grande di tutte le nazioni è diventata esempio di quella specie di crasi tra democrazia e dittatura battezzata “democratura”. Tuttora alle prese con serissimi problemi di arretratezza economica (il pil russo è inferiore a quello italiano eppure la Russia – seconda potenza militare del pianeta – è trenta volte più estesa dell’Italia), Putin ha riconquistato con la forza molte delle posizioni perdute dopo la caduta dell’impero sovietico. Nessuno minaccia il Cremlino eppure le libertà economiche sono garantite solo agli oligarchi fedeli al regime, gli oppositori sono in libertà condizionata, l’informazione è di regime o viene spenta, i diritti individuali e le minoranze sono sottoposti agli arbitri della polizia.
Interi continenti sono tuttora sottoposti a regimi totalitari, dittature militari, teocrazie. La Cina, la più popolosa di tutte le nazioni, ha segnato uno spettacolare avanzamento economico e tecnologico attraverso l’impensabile connubio tra il ferreo controllo del Partito comunista sullo stato e un sistema produttivo turbo-capitalistico incurante dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente. Per non dire delle libertà politiche e civili: la vigilanza è così occhiuta da profittare delle più moderne tecnologie per estendersi anche alla vita privata dei cittadini.
L’India, la più popolosa delle democrazie, conosce anch’essa insieme a un impetuoso sviluppo economico una fase di preoccupante restringimento delle libertà religiose e civili a scapito di mussulmani e cristiani.
Nel mondo mussulmano, con pochissime eccezioni, dopo gli abbagli e le illusioni delle primavere arabe siamo tornati alle dittature tradizionali militari e non, siano esse l’unica alternativa disponibile al caos dell’islamismo radicale e terrorista o complici dei suoi misfatti.
Ma c’è un altro aspetto che ci inquieta più di ogni altro. La crisi della democrazia è così vasta e profonda da aver intaccato e contagiato persino le nazioni che l’hanno reinventata e praticata nell’epoca moderna. La realtà e i valori di quella comunità di stati che erano propri dell’occidente sono contestati, erosi, persino derisi.
La crisi della democrazia coincide con la crisi dell’occidente, la crisi dei valori coincide con una perdita d’influenza e di potenza e con una divisione impressionante dell’occidente. L’Unione europea è stata ferita dalla scelta del popolo britannico di abbandonarla. Il popolo americano ha eletto un presidente – a parte ogni altra considerazione – ostile all’Europa, determinato a farle pagare le spese della difesa e a correggere coi dazi e il protezionismo il vantaggio commerciale dell’Unione. Presidente da solo due anni, Trump ha già fatto saltare molti accordi transnazionali, ha stracciato trattati, ha sabotato il vertice dei capi di stato occidentali. La sua furia mira a sprigionare tutta la forza di un’America libera da vincoli, legami, obblighi internazionali. E’ questo quello che significa America first: un gigante anarchico che discute solo a tu per tu agitando la clava.
“L’Europa che ha costruito la sua unità all’ombra di un’America protettiva verso i suoi alleati è spaesata, smarrita. Le parole di Angela Merkel alle scelte di Trump – “L’Europa deve scegliere il suo destino” – sono un invito pressante alla riflessione e al coraggio
ma anche la mesta presa d’atto di una rottura storica”
L’Europa che ha costruito la sua unità all’ombra di un’America protettiva verso i suoi alleati è spaesata, smarrita. Le parole di Angela Merkel alle scelte di Trump – “L’Europa deve scegliere il suo destino” – sono un invito pressante alla riflessione e al coraggio ma anche la mesta presa d’atto di una rottura storica dalle conseguenze incalcolabili.
Cosa ha reso possibile questa deriva?
Quella che mi piace chiamare “la costituzione dell’occidente” è un’esperienza storica tutto sommato recente persino là dove si è formata e cioè nel Regno Unito, in America e in Francia. Ancor più recente è stata da parte di paesi come l’Italia, la Germania, il Giappone, la Spagna, il Portogallo, la Grecia l’acquisizione di quell’insieme di principi, di regole, di comportamenti in cui consiste una democrazia liberale. E non di rado l’acquisizione è avvenuta dopo sconfitte militari e sanguinose guerre civili.
Eppure, in tutto l’occidente la democrazia occidentale era diventata un sentire comune, era diventata popolare e in essa riponevano fiducia governi e opposizioni insieme con la più larga opinione pubblica. Oggi invece assistiamo alla crisi delle forze di destra, di centro e di sinistra che l’avevano sostenuta, che si erano cioè identificate con la democrazia e il libero mercato, con lo stato di diritto e con lo stato sociale comunque declinati.
Attenzione: a essere sotto schiaffo non è la democrazia genericamente intesa, piuttosto quel sistema di libertà individuali per tutelare le quali la democrazia è stata impiantata e senza le quali la democrazia diventa un simulacro, peggio, un’ipocrita messinscena.
Torna d’attualità un vecchio monito di Amartya Sen: la democrazia non si può ridurre al voto a maggioranza. Certo, un criterio per deliberare, cioè per decidere liberamente, è necessario e la prevalenza di chi ottiene la maggioranza sembra essere il criterio migliore. Eppure, proprio le “democrature” e i dittatori che si fregiano di votazioni quasi unanimi a loro favore avrebbero dovuto metterci in guardia. Il voto è democratico se conclude un processo democratico di formazione della volontà popolare, se cioè, come diceva Amartya Sen, esistono degli spazi pubblici, liberi e aperti di discussione, di confronto, di dialogo. Spazi che non esistono nelle democrazie autoritarie o democrature. Spazi che si restringono dove il potere esecutivo prevarica sugli altri poteri separati e indipendenti come quello giudiziario, quello economico, quello dell’informazione. Spazi inquinati dove prevalgono corruzione e clientele, dove le minoranze sono discriminate e la libertà di informazione e di espressione è limitata o minacciata o sotterrata sotto un diluvio di fake news pilotate da qualcuno.
Ma in fondo questi potrebbero essere mali emendabili, quasi a conferma del noto aforisma di Winston Churchill, “la democrazia è la peggior forma di governo possibile, ad eccezione di tutte le altre”. Anche di altri pericoli che insidiano le libere democrazie si discute da sempre. Mi riferisco a quei processi degenerativi delle democrazie antiche studiati e catalogati da Aristotele, il primo scienziato politico della nostra storia. Le preferenze di Aristotele andavano naturalmente ai regimi aristocratici, eppure non esitò a indagare e descrivere come il governo dei migliori potesse tramutare e degenerare nel governo dei pochi, in oligarchie inamovibili, accaparratrici e sopraffattrici. Parimenti lo stagirita descrisse la degenerazione della democrazia in demagogia. Che cos’è la demagogia dovremmo averlo imparato a scuola, ma forse le scuole di oggi non lo insegnano più. Grosso modo le definizioni correnti descrivono la demagogia come un comportamento politico che attraverso promesse false e ingannevoli ma gradite al popolo mira a conquistare o conservare il potere. Aristotele, che non di rado confonde volutamente democrazia e demagogia, identificava entrambe come governo dispotico dei poveri, delle classi inferiori fomentate e irretite da tribuni che Aristotele chiamava “adulatori del popolo”.
Tanto ci serve per catapultarci nel presente un po’ più avveduti, accorti quanto basta per capire che la democrazia è non solo imperfetta ma anche costantemente insidiata tanto dalle oligarchie quanto da moltitudini guidate dai demagoghi che ne sfruttano il risentimento per conquistare il potere.
Sostituiamo alle antiche oligarchie dei possidenti le tecnocrazie attuali e ai demagoghi del tempo andato i moderni populisti ed ecco dalle nebbie del passato emergere i contorni dell’attualità politica.
Il titolo di questo primo incontro parla di enigma della sovranità. Intendo sovranità al plurale cioè come sovranità del popolo e sovranità della nazione.
Da una parte condividiamo il ri-sentimento del popolo per essere stato espropriato, depredato di una parte del suo reddito e di non riuscire a ripartire. Dall’altra constatiamo la dichiarata impossibilità della nazione di agire e porvi rimedio decidendo politiche efficaci.
E’ questo connubio tra sofferenza e impotenza che ha unito il popolo e la nazione nella contestazione di quel potere o di quei poteri sovranazionali giudicati responsabili del suo impoverimento. Non potendo agire direttamente contro la globalizzazione, gli strali sono stati puntati contro l’Unione europea. Ma a farne le spese per prime sono state le élites politiche domestiche accusate di soggezione allo straniero cioè a Berlino e a Bruxelles. Governanti banchieri imprenditori, il cosiddetto establishment. E in questo impasto limaccioso è dalla sua narrazione faziosa che ha tratto origine la resistibile ascesa del nazionalpopulismo.
Della sua versione italiana parleremo nei prossimi incontri. Adesso mi preme affrontare la dimensione internazionale anzi mondiale del fenomeno di cui parliamo.
Partiamo dai fatti: il nazionalpopulismo si sta espandendo in tutto il mondo. Leader e partiti che si richiamano più o meno a un’ispirazione simile sono al governo negli Stati Uniti, la nazione più potente del mondo, ma anche in Italia, in Austria, in Polonia, Ungheria e in buona parte dell’Europa dell’est. In Francia i nazionalisti alla Le Pen sono arrivati al ballottaggio presidenziale anche nelle ultime elezioni. Insieme ai populisti di sinistra di Mélenchon hanno ottenuto al primo turno il 49 per cento dei suffragi. Solo il sistema presidenziale, la novità di Macron e le loro divisioni hanno impedito che uniti trionfassero.
La democrazia è non solo imperfetta ma anche costantemente insidiata tanto dalle oligarchie quanto da moltitudini guidate dai demagoghi che ne sfruttano il risentimento per conquistare il potere. Non potendo agire direttamente contro la globalizzazione,
gli strali sono stati puntati contro l’Unione europea
Nel Regno Unito il partito indipendentista ha condizionato il partito conservatore e con lo sciagurato referendum indetto da Cameron ha portato il Regno Unito fuori dall’Unione europea. Anche in Germania l’AfD con il suo risultato a due cifre influenza la politica nazionale e in particolare la Csu, l’ala bavarese della dc tedesca che si contrappone alla cancelliera alleata, Angela Merkel e ne paralizza l’azione. Il nazionalpopulismo si è fatto strada anche in Asia. In Indonesia e in Thailandia, dove l’alternanza al potere è spesso scandita da insurrezioni violente e repressioni ancor più violente, le formazioni populiste hanno più volte ottenuto la maggioranza.
Nazionalpopulisti di credo socialista sono al potere nel Venezuela di Chávez e di Maduro e nella Bolivia di Evo Morales. Lo sono stati a lungo in Argentina dove oggi guidano la principale forza di opposizione. Del resto sono stati proprio Perón e il peronismo con i loro descamisados a rimettere in circolo alla metà del ‘900 il marchio apparso per la prima volta in Russia nella seconda metà dell’800.
Prima di passare ad analizzare le cause della sua espansione penso sia utile qualche chiarimento sulla definizione di nazionalpopulismo.
Innanzitutto: la congiunzione dei due termini è appropriata? Cosa c’è di comune tra casi così diversi come quelli citati che giustifichi il definirli con lo stesso appellativo? Last but not least: si tratta di qualcosa di nuovo, di veramente mai visto prima? Vediamo.
La sintesi di populismo e nazionalismo era implicita nel fascismo mussoliniano e divenne esplicita nel nazismo cioè nel nazionalsocialismo hitleriano. Può essere considerata un precedente? Magari un lontano parente? O si tratta di un abuso linguistico fuorviante?
Qualcuno (Mario Rodriguez ma non solo) raccomanda alla sinistra di oggi di non cadere nell’errore di sfoderare il tradizionale armamentario della sinistra che per rafforzare le sue polemiche chiama fascisti i suoi avversari. Giusta raccomandazione. Come insegnavano i gesuiti nelle loro scuole, distingue frequenter, bisogna distinguere spesso, anche e soprattutto per non ripetere i disastrosi errori del passato.
Cominciamo dalle differenze. Bisogna subito dire che, al di fuori dei casi asiatici e sudamericani, là dove i populisti hanno vinto o dove sono forti, non c’è stato ricorso alla violenza organizzata, non ci sono milizie armate, assassini di leader dell’opposizione, assalti a sedi istituzionali o di partiti avversari, incendi, spedizioni punitive.
Del resto, non siamo, come negli anni Venti, appena usciti da una guerra mondiale, non sembra che si stiano preparando guerre civili né che sia divampato un devastante incendio sociale.
Nondimeno è innegabile che la crisi economica di questi anni, per tante analogie paragonata a quella degli anni Venti, ha avuto conseguenze anche più gravi di allora.
Per parlare della sola Italia il crollo di cinque punti del pil nel solo 2009 è stato pagato con decine di migliaia di negozi e di fabbriche chiuse, con più di un milione di persone che hanno perso il lavoro, con la drastica contrazione dei redditi e del tenore di vita della classe media. Certo quel momento è stato superato, l’Italia è tornata a crescere economicamente ma è ancora bloccata socialmente.
Il tentativo cui oggi assistiamo di unire i due poli del nazionalismo e del populismo è nato in questo contesto di crisi e di impoverimento che a partire dagli Stati Uniti è dilagato in Europa e altrove. In un contesto analogo anche le reazioni politiche in alcuni paesi mostrano – rispetto agli anni Venti – insieme – lo ripeto – alla differenza fondamentale della non violenza, anche diverse analogie.
Per essere più precisi: finora la violenza praticata dalle formazioni nazionalpopuliste è stata politica, incivile ma verbale. Ci sono state campagne di inaudita violenza condite di accuse e di insulti infamanti soprattutto verso gli avversari politici ma solo singoli episodi di intimidazione a giornali, tv, organizzazioni non governative, esponenti politici.
Tuttavia si è visto molte volte nella storia quanto sia breve il passaggio dalla violenza verbale a quella fisica e quante predicazioni di odio siano sfociate in un clima di intimidazioni e poi in aperte aggressioni.
Veniamo ora a un aspetto più squisitamente politico della condizione attuale.
Oggi è diventato tanto di moda da risultare stucchevole sostenere che destra e sinistra sono categorie del passato, superate o da superare perché incapaci di cogliere i dati della realtà attuale. Si tratta, in verità, di un vecchio ritornello che molte nuove formazioni hanno intonato per farsi largo e catturare consensi trasversali. Risentire quel ritornello è come sfogliare l’album di famiglia della destra sociale e nazionalista. E’ l’album del nazionalpopulismo. Per un momento riapriamolo.
Il primo tentativo di abbattere i vecchi confini tra destra e sinistra e di fondere elementi dell’una e dell’altra si compie in Italia col fascismo che già nel nome richiamava un’esperienza socialista come quella dei fasci siciliani. Per non dire del Mussolini socialista rivoluzionario che si converte alla guerra in nome della sacralità della nazione, e che poi contro i rossi neutralisti e disfattisti vuole vendicare l’Italia tradita dalle élite liberali colpevoli di aver firmato trattati di pace che mutilavano la vittoria conquistata sui campi di battaglia. Balle, esagerazioni. L’italietta liberale era anche geograficamente la più grande Italia che ci sia mai stata, ben più grande di quella lasciatici da Mussolini dopo vent’anni di boria imperialista e di disastri politici e militari.
Anche al culmine del regime, col partito-stato e la dittatura personale ben consolidati, Mussolini mentre perseguiterà implacabilmente socialisti e liberali, comunisti e cattolici, non trascurerà le condizioni dei lavoratori, cercherà anzi di migliorarle promuovendo con imponenti opere pubbliche l’occupazione e apprestando istituti di garanzia sociale. Ancora alla fine della sua parabola, nel disastro del ‘43, licenziato dal Gran consiglio e dal re, prigioniero dell’alleato tedesco, battezzerà come Repubblica Sociale la sua ultima disperata invenzione.
In Germania il nazionalsocialismo compì la stessa operazione. Da un lato diede una forma aggressiva, sciovinista, al nazionalismo teutonico piegato ma non sradicato dalle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale che avevano imposto alla Germania debiti di guerra inesigibili. Dall’altro il nazismo adottò misure economiche e sociali capaci di conquistare il consenso delle masse popolari sottraendole ai socialdemocratici e ai comunisti. Esattamente come aveva fatto il suo maestro Mussolini, anche Hitler con le sue milizie armate fomentò il disordine nello stato borghese, ne reclutò uomini e mezzi (soprattutto tra militari, ex militari e forze di sicurezza), per imporsi infine come la forza che avrebbe instaurato un nuovo ordine.
Naturalmente la storia non si ripete mai eguale. Oggi non sono alle viste partiti di massa dichiaratamente fascisti o nazisti ma solo sparute minoranze con le stesse caratteristiche del passato. Ma, al netto di tutte le differenze, assistiamo a una nuova vita di quel connubio nefasto proprio negli odierni partiti o movimenti nazionalpopulisti.
Qualcuno potrebbe obiettare che tutti i movimenti rivoluzionari, eversivi o che si propongono come autori di grandi, epocali cambiamenti, di nuove repubbliche e di un nuovo ordine, dichiarano di farlo in nome del popolo e per il popolo. Vero. Ma non tutti indicano come nemici gli stranieri, le organizzazioni sovranazionali e gli immigrati; non tutti additano come traditori dell’interesse nazionale in combutta con gli stranieri gli avversari interni; infine non tutti scelgono come alleati i campioni stranieri del nazionalismo che a rigor di logica dovrebbero essere temuti come i più aggressivi tra i concorrenti e i rivali.
Al netto di Fratelli d’Italia (ultima metamorfosi del Msi), la formazione che oggi più richiama le tragiche esperienze del passato, la Lega di Matteo Salvini, nei sondaggi veleggia intorno al 30 per cento dei voti. Il suo Eldorado, l’unica vera pacchia di cui è giusto parlare, è quella della Lega che sobilla e sfrutta il dramma infinito dell’immigrazione che vuol governare con parole incivili e atti d’imperio. Ma non c’è solo l’immigrazione e non c’è solo la Lega.
L’altro protagonista del populismo italiano sono i Cinque stelle. Qual è la vera natura e il vero orizzonte di questo strano movimento? Lo vedremo.
Intanto, oggi, caso unico, il fronte nazionalpopulista governa un paese tra i più ricchi e democratici del mondo. Quali mutamenti economici sociali, culturali e politici hanno creato l’humus propizio a questa avventura? Quali responsabilità, cioè errori e colpe delle élite italiane, della sinistra e della destra liberal-democratiche li hanno favoriti? Quale atteggiamento assumere rispetto a un’Unione europea satura di regole e digiuna di idee forza, di idee rinnovatrici? L’Europa è diventata nostra nemica? L’occidente non sarà più il nostro destino? E quale altro sarebbe di grazia?
Mi fermo qui, a questi interrogativi. Nei prossimi incontri cercheremo di rispondere.