La Camera dei deputati (foto LaPresse)

La trattativa per i capi di gabinetto è più bloccata del Parlamento

Valerio Valentini

I lavori della Terza Repubblica fermati da un incrocio di veti a Palazzo Chigi. Nomi e storie dietro la partita Giorgetti-Conte

Roma. Si potrà pur dire, col ministro Riccardo Fraccaro, che il proliferare di leggi è un male da scongiurare; e convincersi pertanto che, a guardare i parlamentari arrabattarsi nell’inerzia da ormai novanta giorni e più, con appena due provvedimenti approvati negli ultimi due mesi, non si debba per forza sbuffare d’impazienza. E però lo stallo, in questa Terza Repubblica che si dice essere quella del cambiamento, sembra davvero perdurare oltre i limiti dell’umana pazienza. E non solo alla Camera e al Senato. Anzi, è soprattutto nei palazzi dei ministeri che si protrae l’attesa dell’inizio effettivo dei lavori. I capi di gabinetto, quasi dovunque, vanno ancora definiti. “E si è ancora in alto mare”, confessa un parlamentare di spicco del M5s, da poco nominato sottosegretario. Sembrava potesse essere questa, la settimana risolutiva. “Macché”. E d’altronde l’inghippo, a quanto si racconta, sta a monte. E cioè nella scelta, assai irrituale, di decidere i ruoli apicali dei vari dicasteri direttamente a Palazzo Chigi. Sono insomma Giuseppe Conte e Giancarlo Giorgetti, e non i vari ministri competenti, a gestire le trattative, con tutte le varie complicazioni del caso. E siccome tra il premier e il suo sottosegretario non pare ci sia un’intesa idilliaca, sul da farsi, ecco che quel complicato esercizio di incastri e di equilibri si sta trasformando in un continuo disfare, oggi, quel che ieri si era imbastito.

 

Insomma, un pantano. A partire, proprio, dal dipartimento agli Affari legislativi (Dagl) di Palazzo Chigi, quello deputato, cioè, a preparare e correggere i provvedimenti discussi in Consiglio dei ministri. Giorgetti a capo dello struttura voleva inizialmente Claudio Tucciarelli, attualmente in servizio a Montecitorio ma già ingaggiato, in passato, da altri ministri del Carroccio. Conte però preferiva Ermanno De Francisco, membro di quel Consiglio di stato di cui il giurista pugliese è stato vicepresidente. Bruciati entrambi i nomi, nelle ultime ore sono salite le quotazioni di Stefano Varone, avvocato di stato che un ufficio legislativo lo ha già guidato: quello del Mise ai tempi di Calenda. Partita chiusa? Non ancora. 

 

E ancora da definire è anche la partita per il capo di gabinetto di Matteo Salvini. Il ministro dell’Interno ne ha già uno, al Viminale: si tratta del prefetto di Bologna Matteo Piantedosi. Ma essendo anche vicepremier, il segretario della Lega ha diritto a un secondo scudiero. Tutto porta a pensare che sia Paolo Visca, alto funzionario di Montecitorio, stimato da Giorgetti e da varie cancellerie europee: ma la sua promozione, data per scontata ormai da giorni, non viene ancora formalizzata. Al Mibact, invece, all’inizio della scorsa settimana sembrava fatta per Salvo Nastasi, già vice segretario generale a Palazzo Chigi e apprezzatissimo da Matteo Renzi, che su di lui a un certo punto era sembrato voler scommettere come sindaco di Napoli. Ma sono poi bastati due giorni perché Alberto Bonisoli ci ripensasse, confermando alla fine Tiziana Coccoluto, già promossa da Dario Franceschini. Barbara Lezzi, per il ministero del Sud, vorrebbe affidarsi a una persona fidata: si tratta di Valeria Capone, storica collaboratrice parlamentare di vari gruppi, dall’Idv ai Verdi, e poi scelta dal M5s nel 2013 come capo dell’ufficio legislativo a Palazzo Madama, lo stesso dove la neo ministra grillina siede da oltre cinque anni. Pare sia lei la persona destinata a rimpiazzare Edoardo Battisti, che però ha ancora qualche possibilità di mantenere il suo posto. Ad affiancare Paolo Savona, agli Affari europei, dovrebbe essere invece Carlo Deodato, consigliere di stato già ai vertici del Dagl a Palazzo Chigi all’epoca di Enrico Letta: ma, anche in questo caso, manca l’ufficialità. E siccome il rompicapo è complesso, lo stallo politico sui capi di gabinetto si riflette anche sulle deleghe a viceministri e sottosegretari: pure quelle in attesa di essere assegnate. Molte, in verità sono ormai scontate, date per certe dagli stati maggiori di Lega e M5s. E però, le poche caselle davvero contese – oltre a quelle alla Farnesina, dove c’è ancora incertezza generale, quella sui porti al Mit, reclamata da Edoardo Rixi del Carroccio, quella sulla pubblica sicurezza al Viminale contesa tra il salviniano Nicola Molteni e Carlo Sibilia del M5s, quella al Fisco, in Via XX Settembre, che potrebbe andare o al leghista Massimo Garavaglia o alla grillina Laura Castelli – stanno lì a impedire che il quadro si compia. “Anche perché”, dice un leghista di primo piano, coinvolto nella partita, “la partita delle deleghe s’intreccia a quella degli uffici legislativi”. E insomma ogni impaccio esige che un altro, più a monte, venga prima risolto, in un clima di eterna attesa che tutto si compia. E nel mentre c’è chi, specie nella babele di Via Veneto, dove Luigi Di Maio ha accorpato Sviluppo e Lavoro, tra una vertenza e l’altra, si lamenta di non sapere quale numero comporre, quando alza il telefono, anche solo per chiedere informazioni.