Matteo Renzi all'Assemblea del Pd di sabato 7 luglio 2018 (foto LaPresse)

Il Pd e il dramma di un partito che parla di se stesso scordandosi dell'Italia

Claudio Cerasa

Idee per il futuro, per smetterla con i materassi sul passato

Per descrivere la gradevole sensazione offerta sabato scorso dall’assemblea del Partito democratico occorre andare a ripescare un famoso paradosso escogitato nel 1972 da Ennio Flaiano, limitandoci a modificarne il finale. Prendete una tela, laceratela, lavatela, mettetela ad asciugare in una galleria assieme a un cane: un critico vi spiegherà perché l’avete fatto, e che cosa avete fatto. Legate vostra madre a una catena, denudatela, aspettate i fotografi: se vostra madre piange o protesta, chiamate il critico di turno e le spiegherà che sta lavorando per la liberazione della donna. Ora. Prendete un partito in fin di vita, mettete alcuni dirigenti di quel partito a discutere del partito in fin di vita, e se poi quel partito dovesse morire non allarmatevi: potrete sempre dire che quella discussione, anche se ha portato alla morte, era comunque vitale.

 

Se c’è una lezione da trarre dall’assemblea che sabato scorso ha incoronato come nuovo segretario del Pd Maurizio Martina, in attesa di eleggere al congresso un segretario vero, è che nulla di tutto quello che è stato fatto dalla nascita del governo a oggi può essere considerato altro dal tentativo di togliere l’ossigeno al più grande ma morente partito d’opposizione. Si potrebbe parlare a lungo dello psicodramma di un partito che pur di non parlare dell’Italia continua a parlare di se stesso; e si potrebbe parlare a lungo del dramma di un partito che pur di non parlare di futuro continua a parlare del passato.

 

Eppure accettare di seguire lo spartito scelto sabato dal Pd per provare a governare il dopo Renzi – vale per tutti: parlare di Renzi senza parlare di contenuti significa parlare del nulla – è il modo peggiore per immaginare come dovrebbe essere oggi una sana e robusta opposizione. Le cose in realtà sono più semplici di come il Pd le voglia descrivere e mai come oggi dovrebbe essere chiaro a tutti che chi non si riconosce nei contenuti del governo gialloverde ha di fronte a sé solo due opzioni: o continuare a parlare per farsi capire solo dal proprio partito o parlare per farsi capire anche dal paese.

 

La prima opzione equivale a fare di tutto per evitare di spiegare che la discontinuità che oggi andrebbe messa in campo non è con il passato del proprio partito ma è con il presente di questo governo. Significa fare di tutto per evitare di spiegare che una novità in politica la si costruisce evocando qualcosa di diverso dalle proprie idee di alleanze future. Significa comprendere che quando un governo minaccia di far saltare l’Europa attraverso la distruzione di Schengen, quando un governo afferma di volersi alleare in Europa con i peggiori amici dell’Italia, preferisce alla promozione del merito la sottomissione al sindacato, si balocca con la salute dei nostri figli facendo il gioco delle tre carte sui vaccini, promette di combattere l’occupazione al posto del precariato, mette a rischio la credibilità di un paese solo sulla base delle sue promesse; quando in un paese succede tutto questo, politici con la testa sulle spalle piuttosto che rincorrersi con i materassi, o nascondersi, dovrebbero offrire gli unici elementi che possono dare ossigeno a un partito che mostra difficoltà anche a respirare: leadership e visione.

 

Per fare ciò, bisognerebbe avere la consapevolezza che il progetto originario del Pd è morto non il 4 marzo 2018 ma il 4 dicembre 2016, quando all’Italia è stato impedito di avere un sistema capace di alimentare la vocazione maggioritaria. Bisognerebbe rendersi conto che in un sistema non maggioritario i partiti-alla-Macron potranno nascere solo dopo aver esportato in Italia il modello presidenziale alla Macron. E bisognerebbe rendersi conto che così come un partito come la Lega è passato dal 4 per cento al 18 per cento nel giro di quattro anni, un partito come il Pd potrebbe percorrere senza troppi problemi l’autostrada che oggi ha di fronte limitandosi a ricordare due questioni di fondo: Lega e Movimento 5 stelle rappresentano il 49,9 per cento di coloro che hanno votato il 4 marzo e, al contrario di Forza Italia, che non potrà mai attaccare con troppa durezza un governo formato da un partito che è il suo principale alleato in tutte le amministrazioni in cui governa, al Pd basta una visione forte e una leadership innovativa intenzionata a non rimuovere il passato con una ruspa per avere un futuro. Le alternative al governo populista avranno il dovere di marcare sempre una distanza dal sovranismo, ma una cosa forse dovrebbero impararla: la capacità con cui Lega e M5s riescono a parlare al paese senza parlare sempre di se stessi. Quando la si smette di occuparsi di fregnacce?

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.