Foto LaPresse

Di Maio nel labirinto Rai

Salvatore Merlo

Salvini cede al suo omologo grillino la nomina del direttore generale, e intanto s’è già preso l’azienda

Roma. Poiché Matteo Salvini bada al sodo, ed è abbastanza abile nell’evitare complicazioni superflue, ha proposto al suo omologo di governo, Luigi Di Maio, uno scambio che suona all’incirca così: a voi la nomina del nuovo direttore generale della Rai, a noi quella del nuovo amministratore delegato della Cassa depositi e prestiti. Chiacchiere, qualche clientela e molte grane di qua, tanti soldi e concretissimo potere invece di là. E d’altra parte il capo della Lega, che tra Saxa Rubra e Viale Mazzini ha già fatto il pieno di uomini passati con lui da Forza Italia e persino dal Pd, si tiene lontano con un misto di afflizione e filosofico relativismo dalle velleità riformiste che invece sembrano eccitare il giovane Di Maio almeno quanto eccitavano – all’inizio – Matteo Renzi. Diceva infatti l’allora segretario del Pd e presidente del Consiglio: “Fuori i partiti dalla Rai”. Ma poi è finita con Antonio Campo Dall’Orto, il manager che doveva incarnare il novismo, fatto ruzzolare fuori da Viale Mazzini e spinto via da… i partiti. Dice oggi il povero Di Maio, forse nemmeno sospettando dentro quali pasticci, quali vischiosità e quale eternità di foresta si sta infilando: “Non sceglieremo in base all’appartenenza politica”. “Censiremo i raccomandati”. E infine, in un crescendo nebuloso: “Faremo della Rai la nuova Netflix”. E allora da un lato c’è un’assordante, ubiqua, confusa e persino generosa frenesia di riforme, un oceano da cui sorgono miraggi scombiccherati, mentre dall’altro c’è la saggezza sperimentata e antica della Lega che non vive di brividi, impeti e vaghezze ma bada alla Cassa depositi e prestiti, ai tg regionali, e può già contare su una struttura che dalla direzione di Rai1 in giù si è già ricollocata sotto il bandierone di Alberto da Giussano. 

  

E c’è forse in questa vicenda, come sempre capita nell’intrico Rai, l’essenza ultima della politica e del governo, del nuovo potere che si realizza nell’asimmetrico matrimonio tra Di Maio e Salvini, tra i Cinque stelle e la Lega, gli agnelli e i lupi, Pinocchio e la Volpe, gli spaesati e i furbi del contado. Così, mentre Vincenzo Spadafora, il sottosegretario grillino, assieme al collega Stefano Buffagni, compila elenchi, telefona in giro e a quanto pare dà vita a surreali colloqui di lavoro con potenziali direttori generali della Rai, si consulta persino con Mara Venier e probabilmente sogna un manager a metà strada tra Marchionne e Steve Jobs (ma con il tetto di stipendio fissato a 240.000 euro), ecco che la Lega, senza nemmeno faticare, con grande pragmatismo può contare sui Teodoli e i Del Brocco, cioè sul fil di ferro aziendale Rai, sugli antichi insediamenti nelle redazioni dei telegiornali, per non citare l’attivismo sociale, cioè salottiero, della brava Caterina Balivo e del marito, Guido Brera, autore di un libro sulla finanza, “I diavoli”, che molto era piaciuto agli economisti del sovranismo leghista.

  

La Rai tende a un’ambiguità suggestiva, a un gioco cinico e paradossale di amori oscuri, e quel “censiremo i raccomandati” pronunciato da Di Maio, che avrebbe fatto sorridere il vecchio Ettore Bernabei – lui che aveva addirittura creato un ufficio raccomandazioni, e che grazie a una raccomandazione assunse il meglio della televisione, come Renzo Arbore – ha una sua presa lirica, un rimbombo solenne e suggestivo, almeno quanto quell’incongruo e trasognato “la Rai sarà la nuova Netflix” o quel “non ci saranno scelte di tipo politico” gettato nel mazzo con incurante spensieratezza, come se da cinquant’anni a questa parte, ciclicamente, non fosse sempre spuntato qualcuno con la stessa naïveté di Di Maio a promettere l’arrivo di Prometeo, il titano che spezza il giogo della lottizzazione. E allora vasti orizzonti si spalancano all’immaginazione di chi ascolta, ma anche sorrisetti di compatimento tra chi, come i leghisti, capisce e frequenta la televisione di stato da trent’anni. Un’azienda che è come la sabbia che s’infila dovunque, come l’argilla che assume tutte le forme amate, materia proteiforme capace di assumere le fattezze esatte di chi promette di cambiarla. Una volta era Renzi, adesso è Di Maio. Loro passano, la Rai resta. Eterna e irredimibile.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.