Foto LaPresse

Zanda dice che bisogna reintrodurre il finanziamento pubblico

David Allegranti

"Privare i partiti delle risorse minime necessarie alla loro funzionalità significa favorire l’affermazione di gruppi sostenuti finanziariamente solo da interessi economici non politici"

Roma. Il finanziamento pubblico ai partiti non esiste più, è stato abolito nel 2013 (decreto legge 149). E’ una delle tante versioni della decrescita infelice applicata alla politica. Luigi Zanda, senatore del Pd, già capogruppo a Palazzo Madama, pensa che la norma andrebbe rivista, perché “forme di finanziamento della politica insieme ad adeguate forme di pubblicità amministrativa figurano, con caratteristiche diverse, pressoché in tutti i paesi democratici”. Per questo ha appena depositato un disegno di legge per attuare l’articolo 49 della Costituzione (“Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”) a partire da due questioni centrali.

  

La prima riguarda la trasparenza dei meccanismi di democraticità interni “di cui molti partiti e movimenti politici presenti sulla scena politica difettano in modo evidente”, dice Zanda. La seconda riguarda invece “il rimborso delle spese di base necessarie al funzionamento della democrazia”. Il disegno di legge, come primo punto, vuole dare un contributo alla disciplina interna dei partiti e alla “necessaria acquisizione della personalità giuridica per i partiti che intendano prendere parte alle elezioni politiche e candidarsi”. Ma tale riconoscimento deve essere legato al rispetto di “puntuali standard di democrazia interna da includere nello Statuto, fra cui la disciplina delle procedure di ammissione e di espulsione” (al M5s, che nella scorsa legislatura ha avuto il grilletto facile, fischieranno non poco le orecchie). Poi c’è appunto l’altra grande questione: i soldi.

  

Secondo Zanda è evidente che “la completa esclusione di forme di finanziamento pubblico può facilmente determinare come prima conseguenza che i finanziamenti privati e il relativo condizionamento avranno un peso determinante nella competizione elettorale. Questo per non parlare dei rischi di corruzione politica, sempre presenti in tutte le società occidentali”. Dunque “privare i partiti e i movimenti politici delle risorse minime necessarie alla loro funzionalità significa, da un lato, impoverire la rappresentanza attiva di vaste aree della società e, dall’altro, favorire l’affermazione di partiti o movimenti sostenuti finanziariamente solo da interessi economici non politici”. In Italia l’eliminazione totale di qualsiasi forma di finanziamento pubblico, “sia pure ben motivata da ben precise ragioni storiche e dovuta ai numerosi episodi di cattivo uso dei finanziamenti fatti emergere dalla magistratura, non appare più giustificata da ragioni forti”.

  

Al contrario, dice Zanda, “nel bilanciamento tra costi e benefici, i rischi dell’assenza di qualsiasi forma di finanziamento appaiono di molto superiori alle preoccupazioni che ne possono derivare: diversi partiti rischiano di abbandonare la scena politica per mancanza di risorse”. Il disegno di legge di Zanda dunque dispone la reintroduzione del finanziamento pubblico ai partiti, anche se in forma diversa, con l’istituzione di un fondo da 90 milioni di euro per cinque anni presso il ministero dell’Economia finalizzato alla parziale copertura delle “spese rimborsabili” sostenute per il perseguimento degli obiettivi previsti dallo statuto del singolo partito. Questo fondo nel ddl viene diviso così: il 10 per cento in parti uguali tra i partiti e i movimenti politici che abbiano eletto almeno un parlamentare e il restante 90 in ragione della rispettiva quota di rappresentanti eletti alle ultime elezioni. Tra le spese rimborsabili figurano quelle relative all’affitto dei locali per le sedi di partito, alle manutenzioni, ai servizi logistici e altro ma non il finanziamento diretto dei candidati alle elezioni o i contributi erogati alle associazioni. A chi non intendesse dotarsi di quegli standard minimi di democrazia interna o non stabilisce chiaramente nello statuto le procedure per la scelta del leader sarebbe ridotto l’importo del finanziamento, parti a due terzi del totale. Anche qui per il M5s sarebbero guai seri.

  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.