Giovanni Tria (foto LaPresse)

Tria e le deleghe. Il conflitto più profondo all'interno del governo è sull'economia

Salvatore Merlo

Per capire dove nascerà la frattura nel governo bisogna seguire una partita al Mef

Roma. La sottosegretaria all’Economia è una piccola furia. Inforca il Transatlantico, a Montecitorio, e appena vede una faccia amica le si avvicina, e si lascia andare: “Io quello lo asfalto. Lo asfalto”. E “quello” è il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, l’uomo che tiene insieme con lo scotch la credibilità dell’Italia sul mercato del debito pubblico, il ministro che non le dà le deleghe, non la impiega, perché evidentemente non si fida della sottosegretaria che, tra le altre cose, diceva di essere a favore di un referendum sull’euro “ma non so se votare sì o no”. E allora Laura Castelli, la grillina che mesi fa andò a una riunione di commercialisti iscritti all’albo confessando – tra fischi e risate – di aver esercitato abusivamente la professione, non ci sta. Il pennacchio non le basta. Lei vuole le deleghe, vuole esercitare il suo ruolo al ministero dell’Economia e delle Finanze. Così “adesso gliela faccio vedere io”, diceva Castelli a un amico. “Adesso mi scrivo io la delega, la porto in Consiglio dei ministri e la faccio approvare al presidente del Consiglio Giuseppe Conte”. Rimane qualche perplessità sul fatto che questa procedura sia regolare – cioè che esista – ma certo il malessere della sottosegretaria Castelli è sintomatico di quello che accade al governo, e nei corridoi del ministero dell’Economia, dove il professor Tria, modico all’apparenza e nel parlare, ma vivo nell’azione come cauto e acuto nel pensarla, silenziosamente blocca tutte le nomine scombiccherate che i Cinque stelle cercano di imporgli, e in pubblico interviene mandando regolarmente segnali tranquillizzanti, verso i mercati. E infatti ha impedito che diventasse direttore generale del Tesoro quel Guglielmi che si era impegnato in studi sull’uscita dall’euro, ha bloccato la nomina a consigliere economico di quel pm di Trani che aveva iscritto nel registro degli indagati sia i dirigenti del Mef che si occupano di debito pubblico (delle specie di supereroi che hanno gestito uno dei più giganteschi debiti al mondo in una situazione politica profondamente instabile) sia Deutsche Bank e Morgan Stanley, cioè quelli che acquistano il debito italiano, oltre alle agenzie di rating che il debito italiano lo valutano.

 

E ogni volta che le parole sfuggono ai maggiorenti politici del governo, com’è accaduto ieri a Luigi Di Maio sul Ceta (“se anche uno solo dei funzionari italiani che rappresentano l’Italia all’estero continuerà a difendere trattati scellerati come il Ceta, sarà rimosso”), lui ci mette subito una pezza, come può, inviando cauti segnali di fumo all’estero: “La mia opinione è che il libero commercio, che si estende anche attraverso accordi commerciali, è sempre una buona cosa”. E insomma, impegnato in un lavoro quasi invisibile di fronda silenziosa negli ambulacri del governo, quest’uomo di stile prudente diventa suo malgrado protagonista in pubblico soltanto quando non ne può fare a meno, quando cioè emerge in superficie la controrealtà o realtà ideale nella quale i cinque stelle presumono di muoversi come se non esistesse un sistema di relazioni, di cause e di conseguenze in cui la fragile Italia è esposta.

 

Quella del ministro Giovanni Tria è una fatica di Sisifo. Lui si trascina sulle spalle il peso del debito pubblico italiano, e quelli, ogni volta, con spensieratezza, quasi lasciano rotolare il masso di nuovo verso valle. E allora è forse proprio questo il conflitto più profondo all’interno del governo, quello più vero, più dell’immigrazione, che liricamente sembra separare la Lega dai Cinque stelle, più del decreto dignità e dei voucher. Il professor Tria provoca bellicosità mascellari, vene gonfie, pugni sul tavolo. “Lo asfalto. Voglio le deleghe. Le porto in Cdm e me le faccio approvare lì”, dice quindi Laura Castelli ai suoi amici, mentre l’altro sottosegretario, il leghista Massimo Garavaglia, anche lui senza deleghe, subisce la stessa sorte della collega per una sorta di crudele par condicio, “se la Castelli non ha le deleghe diventa complicato darle a Garavaglia”. Vittima collaterale. E infatti la Lega, che non è il M5s e pratica i campi della politica con passo professionale, riconosce tutti i segnali di fragilità inoccultabili, le linee di frattura che malgrado gli strepiti e i falli di reazione, tengono ancora aperti i dedali sotterranei che collegano Matteo Salvini a Silvio Berlusconi e a Giorgia Meloni. Non si spiegherebbe altrimenti la pazienza zen – “anzi sufi”, dice lei – con la quale Meloni, che ieri ha presentato 220 amministratori locali di FI passati adesso con Fratelli d’Italia, maneggia la spavalderia anche aggressiva di Salvini. Qualcosa potrebbe rompersi nel governo. “Perché non mandiamo a quel paese i leghisti? Perché la lista è lunga, e ci sono delle priorità. Prima quelli di sinistra, poi i Cinque stelle… e infine forse i leghisti”, dice Ignazio La Russa, ridendo. Ma quel “forse” potrebbe sciogliersi.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.