La fuga di capitali dalla Capitale e la grandeur del sindaco
I nuovi bandi di gara che vanno deserti, il fantasma del “Tavolo” di Calenda e Raggi che sogna le “cabine di regia”: aiuto!
Roma. “Aziende in fuga dagli affari con l’amministrazione” romana, recita un titolo su Repubblica di ieri. Argomento: gli ultimi bandi di gara capitolini, uno per il futuro albero di Natale (dopo la non felice avventura del cosiddetto “Spelacchio”, abete di non bellissima presenza), uno per la ricerca di pezzi di ricambio per venti biciclette dei vigili urbani, e poi quello più grave: la diserzione della gara Atac per l’acquisto di trecentoventi nuovi autobus di qualche giorno fa.
Per quanto il sindaco Virginia Raggi possa promettere di provvedere, il punto resta: Roma non è in cima alla lista dei posti preferiti dagli imprenditori, e non da oggi. Da circa due anni, infatti, il tema “fuga dei capitali dalla capitale” tiene banco non soltanto in Campidoglio, ma presso i Palazzi, e c’è ancora chi ricorda la voce fuggita da leggenda metropolitana, con l’ex assessore all’Urbanistica della giunta Raggi Paolo Berdini che si rammaricava per le sorti non magnifiche e non progressive di una Roma “impreparata e inadeguata”, preda di una specie di corte dei miracoli. Per tutto il 2017 si era parlato di come ovviare alla crisi, specie in concomitanza con il trasferimento a Milano delle sedi centrali di grandi aziende come Sky o del tg Mediaset. La Cgil aveva allora denunciato la possibile perdita di posti di lavoro, guardando alla crisi Alitalia e alla ristrutturazione nel settore chimico-farmaceutico. “Roma purtroppo sta perdendo la propria vitalità e la capacità attrattiva. E’ una crisi di sistema molto grave”, aveva detto il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti. E qualche imprenditore aveva cominciato a spiegare il fatto con il paragone: Milano cablata, Milano accogliente, Milano europea, Roma sempre più avviluppata nella spirale legacci burocratici-trasporti disastrosi-monnezza-amministrazione in panne o alle prese con i dilemmi da conflitto con lo statuto del M5s (con contorno di dimissioni di assessori). In questo quadro, attorno al ministero dello Sviluppo Economico, allora guidato da Carlo Calenda, si era cominciato a discutere di un possibile “Tavolo per Roma”: luogo di brainstorming per comune, Mise, Regione Lazio, Unindustria e sindacati. Ma l’idea inizialmente non era stata salutata come panacea di tutti i mali dal sindaco, che nell’estate del 2017 siglava un accordo con i sindacati anche detto “Fabbrica Roma”, con l’intenzione di fermare la diaspora di imprese e “rilanciare la vocazione produttiva di beni e saperi della città, le infrastrutture materiali e immateriali che la sostengono e rinnovare il sistema di coesione sociale”. A questa iniziativa si aggiungeva quella di Calenda, in vista del “Tavolo”: veniva così portato all’attenzione delle cronache un dossier sulla crisi della capitale. Destinatari: il sindaco e il presidente della Regione. Nel dossier si illustrava anche un piano strategico da 2,6 miliardi (disponibili, si diceva, tra fondi statali, europei e regionali). La successiva storia del “Tavolo” è nota: Raggi che nicchia, telefoni che squillano a vuoto, Raggi che infine non diserta, e il ministro che assiste alla firma di un protocollo d’intesa per i primi “otto progetti per Roma”. Poi le elezioni, e l’inabissamento mediatico della questione. Fino alla settimana scorsa, quando, in un video (con tanto di musichetta horror) diramato via Facebook e Instagram dal sindaco dopo un incontro con Luigi Di Maio, Raggi ha detto: “Stavolta si fa sul serio”, con ottimistica grandeur e annuncio di prossime “cabine di regia”. Ma, a quanto pare, l’imprenditoria non la segue.