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La strategia di Salvini sull'immigrazione si fonda su basi deboli. Ecco cosa potrebbe andare storto

Lorenzo Borga

Le scelte del ministro dell'Interno, all'apparenza, sembrano avere una logica. In realtà si poggiano su alcune ipotesi che sono da dimostrare. Fact checking

“Incontro molto positivo tra Italia e Germania: meno sbarchi, meno morti, meno immigrati clandestini”. Così il neo ministro dell’Interno Matteo Salvini aveva commentato in un tweet l’incontro con il suo collega tedesco Seehofer lo scorso 11 luglio scorso. Meno sbarchi, meno morti. È la chiave della strategia del Viminale sulla gestione dei flussi migratori dalla Libia. Una strategia che va analizzata nel dettaglio, seguendone la logica e andando oltre le polemiche quotidiane. Le scelte sull’immigrazione sono politiche pubbliche come le altre, che vanno analizzate sia ante che post; una buona pratica che troppo spesso ci dimentichiamo in Italia. Solo razionalizzandola e verificando le possibili ipotesi ed esiti sarà possibile, su un periodo di tempo più lungo, accertarne l’efficacia. È infatti necessario più tempo: poco più di un mese e mezzo è un intervallo troppo limitato per trarre le prime valutazioni. Eppure già oggi è possibile porre i primi paletti e indicazioni, per capire cosa e quali dati sarà interessante tenere d’occhio durante il resto dell’anno.

 

Come funziona la strategia-Salvini

Il piano del nuovo ministro dell’Interno poggia su un elemento fondamentale: introdurre condizioni di deterrenza per scoraggiare le partenze dalla Libia e dai paesi d’origine. In altre parole, aumentare i rischi per i migranti, in modo che non partano più. È un metodo, a prima vista logico, che coglierebbe due piccioni con una fava: abbattere gli arrivi sulle coste italiane - perché non possiamo accogliere tutti - e ridurre i naufragi. Questi sono i due vincoli politici che generalmente sono richiesti dagli elettori nel dibattito pubblico, dai quali non si può trascendere. È lo stesso segretario della Lega che spesso, per giustificare le proprie proposte di chiusura, ha affermato la necessità di ridurre il più possibile le disgrazie: "Oggi altri morti in mare: il Mediterraneo è un cimitero. C'è un unico modo per salvare queste vite: meno gente che parta, più rimpatri”. È una strategia che altrove ha funzionato: in Australia per esempio, dove dal 2013 il governo ha introdotto la linea dura per gli arrivi via mare attraverso respingimenti delle navi e accordi con paesi terzi per costruire centri di identificazione dei migranti. Una mossa che ha azzerato i morti in mare e ridotto gli arrivi di immigrati. Non è però replicabile in Italia, sia perché i respingimenti sono illegali, sia perché ad oggi i paesi terzi non si sono mostrati disponibili ad ospitare centri europei di identificazione e smistamento (Algeria, Tunisia, Libia, Marocco, Albania hanno già messo le mani avanti).
Ridurre i naufragi è una priorità: il Mar Mediterraneo è da anni pericolosissimo per i migranti. 16.780 sono le persone morte e disperse dal 2014 nel tentativo di raggiungere le coste europee secondo l’Oim (l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), delle quali più di 11mila nel tratto di mare di fronte al nostro paese. Migliaia di uomini, donne e bambini la cui morte l'Italia e l’Europa non hanno saputo (o voluto) evitare. D’altronde non vi è strategia che azzeri le disgrazie del mare, se non una: legalizzare il flusso e organizzare corridoi umanitari; in questo modo però verrebbe messo a dura prova il secondo vincolo, cioè l’impossibilità politica di accogliere tutti. È in questo contesto che si innesta l’idea di Salvini: le persone muoiono perché partono dalle coste libiche; se non li lasciassimo partire o li disincentivassimo a farlo, verrebbero ridotte anche le morti. È però a questo punto che si palesa la grande contraddizione: come si disincentivano le persone a partire? Come si amplifica il grado di rischio, reale e percepito? Lasciando che, in un primo momento, alcuni naufragi si verifichino.

 

Lasciar morire per evitare altre morti

Il ministro dell’Interno ha messo in campo una strategia della deterrenza che parte dal blocco dei porti alle imbarcazioni Aquarius, Lifeline, Diciotti (Guardia Costiera) e la nave commerciale danese Maersk. Nel frattempo sono però aumentate le partenze dalla Libia e i morti e i dispersi in mare, un effetto probabilmente involontario ma inevitabile se si peggiorano i rischi del viaggio senza precauzioni. Matteo Villa, ricercatore dell’Ispi (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), ha pubblicato alcuni dati interessanti. Le morti nel mare libico a giugno, primo mese di attività del nuovo governo, sono state 587; una crescita enorme rispetto ai novanta giorni precedenti, quando erano affogati in 54 in tre mesi. Un notevole aumento si registra anche nel rischio fatale per chi parte: dei migranti partiti ne sono scomparsi l’8,4 per cento, dato in crescita di ventotto volte rispetto a maggio e di tre volte rispetto alla media degli ultimi due anni. Sono numeri che fanno rabbrividire, ma che sono coerenti con la strategia che l’Italia ha adottato. Più decessi in mare subito significano maggiori rischi e disincentivi a partire, e dunque meno arrivi in Italia e meno perdite umane domani; questo sarebbe l’assunto.

  

 

Perché i morti sono cresciuti? Si è trattato di un effetto dell’aumento delle partenze dalla Libia e probabilmente anche dell’allontanamento delle navi di salvataggio delle Ong dal Mediterraneo Centrale. Oggi solo due imbarcazioni a disposizione delle organizzazioni umanitarie sono operative: l’Italia ha negato loro l’approdo per sbarcare i sopravvissuti e pure per il rifornimento, ed alcune sono sotto sequestro in Italia e a Malta. Queste imbarcazioni, che operavano in circa il 40 per cento dei salvataggi, sostavano più vicino alla Libia rispetto alle navi ufficiali degli stati europei e garantivano dunque un apporto importante alle operazioni di salvataggio. Quasi tutti i naufragi si sono verificati al di fuori delle acque territoriali libiche nella zona di Tripoli, in media a 32,5 miglia nautiche dalla costa (circa 60 chilometri), proprio nella regione in cui le navi delle Ong hanno operato fino a quando non sono state costrette - per motivi legati all’ostruzionismo italiano ed europeo - a sospendere almeno momentaneamente le attività. Un altro indizio, anche se non è ovviamente possibile affermare che in caso contrario sarebbero stato possibile salvarli.

 

Oggi invece il Ministero dell’Interno e quello dei Trasporti hanno preso la decisione di responsabilizzare la Guardia costiera libica, a cui verrà garantita anche la donazione di dodici piccole imbarcazioni. Per adesso tuttavia questo corpo, nonostante sia cresciuto il numero dei suoi interventi in un anno di calo delle partenze, non è ancora in grado di operare con la necessaria efficacia ed efficienza, e l’aumento del totale dei morti rispetto alle partenze ne è un segnale. Mentre i mercantili sono probabilmente preoccupati dalla possibilità di rimanere bloccati per giorni in attesa di un porto di sbarco, come accaduto al portacontainer danese Alexander Maersk.

 

Coordinate dei 18 naufragi di imbarcazioni partite dalla Libia tra giugno e luglio 2018; rielaborazione di dati Oim

 

Cosa può andare storto

Se la strategia-Salvini può in effetti sembrare avere una sua logica, si poggia in realtà su alcune ipotesi che sono da dimostrare.

Prima ipotesi: le navi delle Ong sono un elemento di attrazione. Per via della loro vicinanza alle coste libiche, si pensa, incentiverebbero i migranti a partire. Per questo sono state definite “vicescafisti” e “taxi del mare”, dai ministri Salvini e Di Maio. Ma non è detto che sia così: in un fact-checking pubblicato sul sito dell’Ispi si legge che sarebbe “logico attendersi che la maggiore incidenza di salvataggi in mare da parte di imbarcazioni delle Ong” e “la tendenza di queste ultime a operare nei pressi delle acque territoriali libiche […] possano aver spinto un maggior numero di migranti a partire”. Ma i dati in realtà mostrano altro: “non esiste una correlazione tra le attività di soccorso in mare svolte dalle Ong e gli sbarchi sulle coste italiane”. Cioè i dati statistici ci dicono che l’aumento dell’attività delle navi umanitarie non sembra aver amplificato il numero delle partenze ed essere stato un elemento di incentivo a prendere il mare. O meglio, non ne abbiamo alcuna prova, né in un verso né nell’altro. Solo indizi, che tuttavia per ora non sembrano indicarle come un elemento di attrazione. L’ipotesi di un fattore di attrazione era stata avanzata da Frontex, l’agenzia europea per il controllo dei confini esterni, che in un rapporto del 2017 aveva evidenziato come le missioni di salvataggio prossime o addirittura all’interno delle acque territoriali libiche abbiano conseguenze impreviste, cioè agiscono da fattore di attrazione e combinano le difficoltà del controllo dei confini e del salvataggio delle vite in mare. Tuttavia, prima e dopo il cambio di rotta deciso dall’ex ministro dell’Interno Marco Minniti, con il quale gli arrivi in Italia sono stati ridotti di quasi l’80 per cento (anche se al prezzo di aumentare i detenuti nelle prigioni libiche, spesso in condizioni inumane), il peso delle Ong è rimasto invariato, al palo del 40-50 per cento degli interventi di salvataggio. In quel caso quindi il crollo degli arrivi si è verificato grazie a interventi sul territorio libico – accordi con le tribù e probabilmente pagamenti ai trafficanti – e non per via di una ridotta attività delle Ong. Come ha scritto Annalisa Camilli su Internazionale, anche un’altra ricerca del 2017 aveva evidenziato come un aumento degli arrivi era stato registrato nel biennio 2014-2015, quando ancora non c’erano le navi delle organizzazioni umanitarie. Dello stesso avviso è il controammiraglio Nicola Carlone, del Comando generale della Guardia Costiera, che secondo il fact-checking di Agi durante un’audizione parlamentare nel 2017 ha affermato che “la presenza delle Ong non comporta un fattore di attrazione. In questi giorni abbiamo un tempo abbastanza tranquillo, ci sono diverse unità mercantili, Ong, militari e non sta succedendo niente. […] Il fenomeno è governato esclusivamente a terra, secondo modalità decise dalle organizzazioni criminali”.

 

Seconda ipotesi: i migranti - amplificato il rischio di morte - non partiranno più. Se infatti i pericoli del viaggio aumentano è più probabile che attendano prima di mettersi in mare, o piuttosto tornino sui propri passi. Non è tuttavia detto che così accada. I migranti, spinti dalla disperazione e dalla possibilità ormai concreta di arrivare in Italia, potrebbero ignorare i rischi del viaggio e mettersi comunque in mare. È di questo avviso l’ammiraglio Enrico Credendino, comandante dell’operazione militare europea EunavforMed, che – come ha riportato ValigiaBlu - ha affermato che più che di pull factor (fattore di attrazione) bisognerebbe parlare di push factor (fattore di spinta), cioè gli elementi che spingono i migranti a partire: “Ho incontrato cinque ambasciatori del Sahel, ai quali ho detto che noi probabilmente come Unione europea non spieghiamo ai loro cittadini i rischi dei viaggi nel Mediterraneo. Tutti e cinque mi hanno risposto che mi sbagliavo, e che chi parte sa esattamente quello a cui va incontro: sa che molti moriranno nel deserto, che le donne verranno abusate durante il viaggio, che le famiglie saranno distrutte. Ciononostante scelgono di partire e accettano i rischi piuttosto che restare a casa loro”. I migranti potrebbero anche non ricevere informazioni abbastanza complete sui naufragi e sui nuovi rischi, oppure non essere in grado di elaborarle (più della metà non avrebbe raggiunto un livello di istruzione superiore alla scuola elementare).

 

Terza ipotesi: sono i migranti a decidere se partire o meno. Solo sulla base di questo convincimento infatti aumentare i pericoli del viaggio può realmente scoraggiare le partenze. Ma anche questa ipotesi non appare così convincente: è documentato che a decidere chi, quando e come imbarcare i migranti sono i trafficanti di esseri umani, attraverso pratiche di deportazione. Come ha scritto Lorenzo Bagnoli su Il Fatto Quotidiano, i migranti sono spesso ingannati, viene detto loro che attraverseranno “un fiume” e poi obbligati con la forza a salire sui gommoni, pena la morte. Il fenomeno - come dimostra l’efficacia della strategia di Minniti - pare governato dai trafficanti con un’efficienza ben lontana dalla percezione diffusa di caos e disorganizzazione sulla situazione interna in Libia.

Dunque l'aumento del rischio perde gran parte del proprio potenziale, se il maggiore pericolo non ha effetti su chi prende effettivamente la decisione di partire. I trafficanti potrebbero dimostrarsi compassionevoli e ridurre il numero delle partenze? In passato hanno dimostrato il contrario, quando caricarono i gommoni anche in condizioni meteorologiche pessime destinando i migranti a morte certa, ma nel medio periodo potrebbero ritenere che l’aumento delle incertezze e dei naufragi in mare potrebbe ridurre le partenze dall’Africa Centrale. Appare chiaro tuttavia che anche questa ipotesi è perlomeno spuntata.

 

Meno Ong, più partenze, più morti

La strategia-Salvini si fonda dunque su basi di argilla. Per ora non possiamo che valutarne l’impostazione politica ed etica, e verificarne le ipotesi. È ancora troppo presto per trarne dei giudizi sulla base dei dati e dei cambiamenti di scenario in Africa. Eppure possiamo ricavare alcuni indizi, osservando il dataset pubblico dell’Ispi.

Gli sbarchi in Italia sono diminuiti. Già era accaduto con la strategia del governo Gentiloni, che li aveva ridotti di circa tre quarti. Con l’arrivo di Matteo Salvini al Viminale, in particolare per via del blocco dei porti e dei migranti sbarcati in Spagna e a Malta, gli arrivi sulle nostre coste si sono ridotti ulteriormente.

Le partenze dalla Libia sono aumentate. I partiti dalle coste libiche sono stati 7.028 a giugno, il dato più alto dal luglio dello scorso anno, vale a dire dal cambio di rotta deciso da Minniti. Il dato è calcolato sulla base degli arrivi in Italia, i morti e i dispersi in mare (Oim) e le persone riportate sul territorio africano dalla guardia costiera libica (Unhcr).

Le morti sono aumentate. A giugno sono state 587 secondo l’Oim, il numero più alto da un anno a questa parte. A luglio 129, in tre naufragi differenti. Un numero che in un mese e mezzo ha già superato la metà dei decessi avvenuti da luglio 2017 fino all’insediamento del nuovo esecutivo, cioè da quando è stata intrapresa la nuova strategia di blocco delle partenze da parte di Minniti. Si tratta di 3,3 affogati al giorno con la strategia-Minniti, 16,2 con la strategia-Salvini. Se l’obiettivo era (anche) ridurre il valore assoluto degli annegati, è già seriamente compromesso.

 

 

Per ora dunque più che l’assioma “meno Ong, meno partenze, meno morti” pare vero il contrario: meno Ong, più partenze, più disgrazie, senza che questo implichi nessi di causa-effetto in entrambi i casi. Ma è ancora presto per dare una risposta definitiva. Dai primi giorni di luglio pare infatti esserci un rallentamento delle partenze e dunque una riduzione anche dei naufragi e degli arrivi in Italia. Primo effetto della strategia della deterrenza? Difficile a dirsi: potrebbe in realtà essere in atto una riorganizzazione dei flussi, modificando le rotte e riportando i migranti su pescherecci in legno ad alta capienza (come quello da cui sono stati trasbordate venerdì 450 persone su navi italiane) e abbandonando i fragili gommoni.

 

Ne vale la pena?

Compresa la strategia del ministero dell’Interno - più rischi in mare per meno arrivi e meno decessi - le sue potenzialità e i suoi punti di forza, rimane una domanda: ne vale la pena? Le risposte possono essere diverse, ma non dimentichiamo che il precedente governo aveva già ridotto ampiamente gli arrivi nel nostro paese, e anche i morti in mare, rispetto all’anno prima. Vale la pena accettare un costo di vite umane tanto alto? E poi, vale la pena creare le condizioni per uno scontro tra gli organi dello Stato per ogni imbarcazione carica di migranti che chiede il permesso di attraccare? Domande a cui potremo rispondere solo tra qualche mese, quando i risultati dell’operato del governo italiano saranno più chiari. E allora sapremo se doverci ritenere colpevoli o meno dell’ennesimo cimitero silenzioso nel Mar Mediterraneo.