Rifare una classe dirigente
Il binomio tra democrazia ed economia di mercato funziona se la mobilità sociale è viva e lotta insieme a noi. Oggi c’è un ceto governante arcigno da rivoluzionare
Il rapporto tra governati e governanti non fila mai liscio come vorrebbero i governanti. A ogni passaggio decisivo dell’evoluzione liberale del regime democratico tra Otto e Novecento, la grande maggioranza dei governati ha dato non pochi problemi alla piccola minoranza dei governanti. E’ accaduto e accade anche nei regimi politici non democratici o in quelli a democrazia non liberale. Esiste, insomma, una tensione storica irrisolta tra massa dei governati e minoranza organizzata (Mosca), o corpo specializzato (Weber), o avanguardia rivoluzionaria (Gramsci).
E’ come nell’Enrico VI di Shakespeare: se si vuol fare una rivoluzione non c’è che cominciarla uccidendo tutti gli avvocati
Scherzi e Shakespeare a parte, è interessante considerare come sia cambiata la critica alla classe dirigente a seguito della globalizzazione. La forza del mutamento globalista è tale da chiedere di esaminare con attenzione la nuova élite globale, a partire dai modi nuovi in cui si forma e in cui conserva la propria posizione dominante. Il distacco tra classe governante e masse governate fa, infatti, il suo esordio già nella fase della formazione scolastica e universitaria, per poi proseguire in quella postuniversitaria. E mai come oggi l’intergenerational earnings elasticity (che verifica quanto il reddito lavorativo di un figlio sia connesso a quello dei genitori) segnala l’arroccamento di un’élite chiusa in un fortino inespugnabile. Ma procediamo per gradi.
Classe dirigente e globalizzazione
La globalizzazione, si è detto molte volte e con varie ragioni, ha tirato fuori dalla povertà un numero di esseri umani che si aggira intorno al miliardo. Questo fenomeno si è registrato nelle società non occidentali, laddove in quelle occidentali la globalizzazione ha inversamente divaricato la forbice tra chi ha di più e chi ha di meno. Quando in passato, nel mondo occidentale, si è assistito a fenomeni così importanti di innalzamento della condizione economica di vaste fasce di popolazione, si sono anche determinate potenti modificazioni dei tessuti sociali, delle classi politiche e della coscienza civica delle nazioni. Le rivoluzioni industriali hanno alimentato emancipazione civica e riorganizzazione di sistemi politici per dare rappresentanza istituzionale all’emersione sociale di nuovi “gruppi” di individui.
Questi processi di cambiamento civico e sociale, economico e politico, non sono mai stati tranquilli. Hanno sempre recato con sé il conflitto. L’espansione dello spazio pubblico prodotto da tali processi ha accolto contese tenaci. Dalla composizione di queste contese è emersa la democrazia liberale della seconda metà del Novecento, che ha ampliato le libertà civili e il benessere economico-sociale come mai era accaduto prima. Una delle principali conseguenze è stata il rimescolamento e l’allargamento della classe dirigente intesa nel suo complesso.
Nell’epoca d’oro dell’occidente (che coincide in particolare con gli anni 50 e 60 del secolo scorso) lo spazio della classe dirigente è stato molto accogliente per chi, provenendo dal basso e con la forza del proprio talento, ha potuto perseguire il proprio progetto di vita e di ricerca della felicità. Si è così determinato un continuo scambio tra minoranza governante e maggioranza governata. Esattamente quello che non accade oggi, in un’epoca che divide in comparti stagni i ceti sociali. Non soltanto il gap tra chi ha di più e chi ha di meno si è allargato come non mai, ma si è esacerbato il contrasto tra una classe dirigente globalista e cosmopolita sempre più chiusa nel proprio egoismo di classe, e le masse governate che, con ragione storica, faticano a vedere migliorate le proprie condizioni di vita.
Oggi il compito principale della classe o minoranza dirigente è aprire se stessa, sin dai percorsi formativi, alla maggioranza governata
I regimi illiberali o totalitari sono riusciti in questo intento proprio perché tali: illiberali e/o totalitari. I naturali rivolgimenti all’interno delle loro classi dirigenti (ma qui “naturali” tradisce il punto di vista occidentale di chi scrive) sono stati, all’occorrenza anche brutalmente, normalizzati. Nei regimi illiberali e/o totalitari, le élite dirigenti preesistenti all’azione antipauperistica della globalizzazione hanno difeso il proprio perimetro di ceto dominante. Hanno cooptato chi volevano cooptare (e secondo modalità da loro definite) e hanno sedato, con gli strumenti della coercizione politica di stato, le inquietudini che pure si erano agitate. Un esogeno alleato hanno trovato nel tracollo attrattivo del soft power delle società occidentali, entro le quali la globalizzazione andava riducendo le opportunità e aumentando la povertà.
In sintesi. Nei paesi a democrazia illiberale o nelle nazioni a regime totalitaria, le classi dirigenti hanno accolto tra le proprie fila chi volevano, tenendo buoni i tanti che avevano aspirazioni in tal senso con il mero appagamento derivante dalle maggiori possibilità consumistiche. Lo hanno fatto con gli strumenti iper-dirigisti propri di quei regimi politici e forti della crisi del soft power occidentale. All’opposto, nelle democrazie occidentali la ferale staticità sociale ha prodotto un incattivimento e una chiusura della classe dirigente: oggi lo scambio tra minoranza governante e maggioranza governata è così basso da lasciarsi leggere come inesistente se misurato su larga scala. Un gran bel pasticcio se si tiene conto del fatto (storico) che l’occidente è cresciuto complessivamente di più quando questo scambio è stato molto più intenso.
La presunzione intellettuale dell’élite
Da questo punto di vista, assume nuovo significato la diffidenza delle masse governate verso la presunzione intellettuale delle minoranze governanti. Intendiamoci. La critica contro la competenza dell’élite dirigente (tornata oggi di moda grazie a Tom Nichols) è antica quanto la critica alla democrazia. Platone, nella Repubblica, vedeva nell’antintellettualismo della democrazia il suo peccato mortale. La prospettiva che i governanti si facessero filosofi, e i filosofi governanti, non era altro che la schietta affermazione della necessaria (per Platone) coincidenza tra potere e sapere. Un regime che non avesse previsto questa coincidenza, avrebbe sì superato i limiti demagogici della democrazia, ma non la diffidenza del tiranno Gerone verso la saggezza del poeta Simonide, descritta da Senofonte nel dialogo lungamente chiosato da Leo Strauss e Alexandre Kojève.
Se quindi l’antintellettualismo delle maggioranze governate verso le minoranze governanti è antico quanto la civiltà occidentale stessa, oggi che la mobilità sociale è bassa in Germania, molto bassa in Francia, praticamente inesistente in Usa, nel Regno Unito e in Italia, quell’antintellettualismo acquisisce significati molto interessanti. Significati che ne spiegano l’estremismo verbale (non le sempre deprecabili volgarità ed efferatezza), ma soprattutto la fondatezza storica. Ancor più se alla rivolta contro l’intellettualismo delle masse governate, le minoranze governanti rispondono opponendo con arroganza la propria superiorità intellettuale. Dalla quale per giunta fanno discendere la propria superiorità morale!
Il dibattito sui vaccini è in tal senso un esempio perfetto. Non siamo passati dai primi tentativi di vaiolizzazione della fine del Settecento alla vaccinazione di massa antipolio della seconda metà del Novecento, insultando i malati o le loro famiglie. La diffidenza dei non istruiti verso la sperimentazione scientifica è un atteggiamento naturale. Non lo abbiamo in passato superato imponendo con presunzione il punto di vista intellettuale. Ma con lente e appassionate campagne di informazione e comunicazione, espressione di politiche gradualiste di governi nazionali e organizzazioni sovranazionali. Per quanto possa apparire assurdo, ma appare tale solo a chi ha un’idea bislacca della democrazia, con l’informazione e la persuasione abbiamo costruito consenso intorno alle politiche di vaccinazione di massa. Come se si trattasse di costruire consenso tra i contadini per una riforma agraria. E così dovremmo continuare a fare, nella migliore tradizione occidentale.
Ovvio che diffondere conoscenza, piuttosto che spocchia intellettuale, comporta il rischio che coloro che acquisiscono conoscenza pretendano poi di insidiare le posizioni della classe dirigente. Ma è proprio la possibilità che chi oggi fa parte della minoranza governante, se sprovvisto di talento, possa discendere al grado di maggioranza governata, che rende la relazione tra minoranza e maggioranza più quieta ed equilibrata. Come la speculare possibilità di ascendere al ruolo di minoranza governante per chi è nato e cresciuto nel perimetro ampio della maggioranza governata.
Scegliere i medici tra i figli dei medici
Qualche settimana fa Matthew Stewart, sull’Atlantic, ha raccontato come il sogno americano sia diventato un incubo. In particolare negli anni di Bush figlio e ancora di più negli anni di quel mito del progressismo mondiale che è Barack Obama, negli Stati Uniti le diseguaglianze di reddito e di conoscenza sono letteralmente esplose. Privilegi di classe e diseguaglianze sono diventati ereditari. Scrive Stewart: “La classe meritocratica ha imparato il vecchio trucco di consolidare la ricchezza e trasmettere i privilegi ai nostri figli a spesa dei figli degli altri. Noi non siamo gente che passa di lì per caso e vede crescere la concentrazione della ricchezza. Noi siamo i principali complici di un processo che sta lentamente strangolando l’economia, destabilizzando la politica americana ed erodendo la democrazia”.
La tesi di Stewart non demonizza il merito in quanto tale. Il problema è un altro. Per stare nello schema della fortunata diade di meriti e bisogni di Claudio Martelli, è come se la politica abbia sostituito i bisogni con i meriti. Chi è più in buona fede ha pensato, insomma, che puntare sui meriti avrebbe prodotto una crescita economica tale da poter essere usata, dopo che essa si fosse determinata, in favore dei bisogni. Ma sono sorti due problemi. Il primo di metodo: l’azione di governo o è simultanea e sintetica nei riguardi della diade meriti/bisogni o finisce, per forza di cose, per creare squilibrio sociale. Il secondo di contesto: la globalizzazione, sbilanciando la crescita in favore delle aree non occidentali del pianeta, non ha suscitato una crescita economica in occidente sufficientemente elevata per porre rimedio ai bisogni, dopo aver sublimato i meriti.
Stewart segnala un ulteriore drammatico problema. Negli Stati Uniti (e nel resto delle democrazie avanzate d’occidente) è nata una nuova aristocrazia. Non composta da quello 0,1 per cento più ricco a spese del 90 per cento della popolazione variamente più disagiata. Ma da un 9,9% di popolazione che ama definirsi ceto medio e, in realtà, ha assunto un ruolo di classe dirigente più arcigno e più egocentrico di quello assunto dal famigerato 0,1. Un 9,9 molto più impegnato dello 0,1 a immobilizzare e fossilizzare la dinamica tra minoranza governante e maggioranza governata: “Siamo gente ben educata che veste abiti di flanella: avvocati, medici, dentisti, piccoli banchieri d’affari, alti funzionari di Stato, professionisti d’ogni genere – il tipo di gente che s’invita a cena. Siamo così schivi da negare la nostra esistenza. Continuiamo a ripetere che siamo il ceto medio”.
Questa nuova minoranza silenziosa è la classe dirigente dei nostri tempi. E’ una classe dirigente che ha con la propria specializzazione tecnica un rapporto orgiastico e incestuoso. Contro la massa governata intesa come insieme delle persone non particolarmente specializzate (Ortega y Gasset), la nuova minoranza governante oppone il dominio familistico del sapere tecnico-specialistico. Un sapere da trasmettere per via ereditaria ai propri figli come la casa di campagna. Un sapere a cui non fare accedere la grande maggioranza governata allo scopo di non insidiare la propria posizione di dominio.
Il cortocircuito è dietro l’angolo. Il binomio tra democrazia liberale ed economia di mercato funziona se la mobilità sociale è viva e lotta insieme a noi. Diversamente, la classe dirigente diviene sempre più improduttiva sul piano economico come su quello civile. Scegliere i medici tra i figli dei medici presenta, cioè, vari problemi. E’ chiaramente una di quelle cose che – da giovani – avremmo definito “un’ingiustizia sociale”. E in tal senso attenta alla liberalità stessa dei nostri regimi politici democratici. Tuttavia scegliere i medici tra i figli dei medici (e gli ingegneri tra i figli degli ingegneri…) produce anche un danno economico perché, restringendo il bacino di reclutamento, la società potrà contare su medici sempre meno capaci. Generalizzando, questo fenomeno di radicale introversione delle classi dirigenti non può che incattivire le masse governate che vedono bloccata ogni possibilità di vera ascesa sociale ed economica.
Classe dirigente e formazione
Forse il primo terreno su cui rinnovare le classi dirigenti occidentali è quello della formazione universitaria e postuniversitaria. L’Italia, in particolare, si trova in una situazione critica. I partiti politici non sono più organizzati come strumenti di formazione e selezione del ceto politico. L’unico apprendistato rimasto è quello dell’amministrazione locale. Ma non si dà classe dirigente nazionale per sommatoria di classi dirigenti locali. La classe dirigente, intesa nella sua interezza e non solo come classe politica, dovrebbe recuperare il gusto, oltre che l’obiettivo, di corroborare le proprie stanche energie aprendo alla minoranza governata i propri percorsi di formazione.
E’ un lavoro che dovrebbe riguardare un nuovo investimento di risorse e di fiducia collettiva nelle nostre università, soprattutto in quelle pubbliche, così di recente stupidamente bistrattate da quella propaganda che ha sostituito i meriti ai bisogni. Un lavoro che dovrebbe collegare sempre più in modo sistemico le università al mondo produttivo. A partire da fatti simbolici come la collocazione della delega di governo a più stretto contatto con quella dello sviluppo economico, che non con quella dell’istruzione di base.
Tuttavia il compito principale della classe o minoranza dirigente è quello di riconoscersi davvero come tale. Aprire se stessa, sin dai percorsi formativi, alla maggioranza governata è un postulato che va snocciolato anche in luoghi diversi dalle
Negli anni di quel mito del progressismo mondiale che è Barack Obama, negli Usa le diseguaglianze sono letteralmente esplose
L’obiettivo, oltre all’acquisizione di un sapere tecnico-specialistico, è la valorizzazione ideale e civile della formazione. Solo così potremo anche dinamizzare la società. In un contesto bloccato come il nostro, non è possibile dischiudere spazi senza mettere a rischio i privilegi ereditati. Se non si mettono a rischio, l’abilità della classe dirigente di dirigere davvero il sistema-paese (in Italia come altrove) avrà sempre meno respiro storico. E la pressione delle grandi masse governate finirà fatalmente per risultare irrazionalista e distruttiva. O si sblocca la nostra democrazia e la si rende socialmente fluida, o il sistema-paese sbanderà in modo ancora più evidente.
Un brillante meridionalista irpino, Guido Dorso, negli anni Quaranta ha offerto un’originalissima definizione di democrazia
L’antintellettualismo delle maggioranze governate verso le minoranze governanti è antico quanto la civiltà occidentale stessa
diretta. Non condividendo il concetto in senso assoluto, nei suoi scritti metteva in guardia la democrazia rappresentativa dal chiudersi a riccio in stratificazioni sociali refrattarie a ogni movimento interclassista. Per Dorso la democrazia diretta era la forma storica della democrazia rappresentativa: “Un’organizzazione nella quale sia opposto il minor numero di ostacoli al duplice ricambio tra classe diretta e classe dirigente”. Dorso andava oltre. Riconosceva, infatti, nella forma di democrazia bloccata, della democrazia senza ricambio, lo schema storico-logico della decadenza di una civiltà e della rivoluzione. Thomas Jefferson, altro uomo del sud come Guido Dorso, vedeva nell’affermazione dell’aristocrazia delle virtù e dei talenti, contro l’aristocrazia delle ricchezze e dei privilegi, l’essenza stessa dell’identità americana e del progetto della nuova nazione. Oggi che i termini della dialettica cara a Jefferson si sono ribaltati, a partire dalla sua America, le classi dirigenti occidentali hanno perduto ogni capacità di visione complessiva dei fenomeni e sono tutte concentrate nel difendere l’intricato ordito di privilegi che hanno tessuto. Ma i forgotten man, come ai tempi di Roosevelt, suonano le loro trombe, bussano al portone della fortezza e hanno ormai i calli sulle nocche che da tempo battono il legno. L’eco dei colpi è sempre più fragoroso. I gangheri del portone cominciano a cedere.