Luigi Di Maio e Matteo Salvini (foto LaPresse)

Mettiamo in mutande la decrescita felice

Claudio Cerasa

Gli elogi postumi del modello Marchionne e i pentimenti postumi sul governo delle imprese del nord hanno un punto di contatto: la propensione della classe dirigente italiana a trasformare i buoni riformatori in nemici del popolo. E’ ora di svegliarsi

C’è un filo sottile che collega gli elogi postumi riservati al modello Marchionne da parte della classe dirigente italiana e le critiche postume riservate al governo populista da parte di alcuni delusi imprenditori del nord-est. Il filo sottile riguarda una questione che si intreccia tanto ai temi economici quanto a quelli politici e che potrebbe essere messa a fuoco formulando una domanda semplice: chi ha il coraggio di ammettere che combattere il modello Marchionne significa combattere contro l’unico modello che può portare prosperità al tessuto produttivo di un paese? O se volete: chi ha il coraggio di riconoscere che un paese che passa il suo tempo a trasformare i buoni riformatori in nemici del popolo è un paese che si merita di essere guidato dai nemici delle buone riforme?

 

Se ci pensiamo bene, nel corso degli ultimi anni, dall’epoca Berlusconi a quella Renzi, le accuse rivolte da buona parte della classe dirigente italiana a Sergio Marchionne sono le stesse che hanno accompagnato ogni tentativo di introdurre elementi di innovazione e di rottura non demagogica nel motore della politica italiana. Vuoi rendere il mercato del lavoro più flessibile? Allora sei un nemico dei lavoratori. Vuoi sfidare le corporazioni? Allora sei un nemico del popolo. Vuoi trovare dei metodi per aumentare la produttività? Allora sei un amico dei padroni. Vuoi fare della globalizzazione un’opportunità e non un problema? Allora sei un furfante al servizio degli speculatori. Vuoi lavorare per migliorare la competitività? Allora sei un amico di JPMorgan.

 

Se tutti coloro che stanno rimpiangendo il modello Marchionne avessero fatto di tutto per incoraggiare in politica il marchionnismo l’Italia oggi sarebbe un paese migliore rispetto a quello che ci ritroviamo di fronte. E se vogliamo essere sfacciati rispetto ai molti imprenditori non solo del nord-est che dopo aver scommesso sulle qualità taumaturgiche del leghismo oggi identificano questo governo come una minaccia per il nostro tessuto produttivo, la domanda non può che essere una: scusate, ma che cosa vi aspettavate? Davvero pensavate che sostenere, invece che combattere, un partito scettico sull’Europa e sulla globalizzazione potesse essere il modo giusto per dare uno stimolo ulteriore alle nostre esportazioni? Davvero pensavate che sostenere, invece che combattere, un partito scettico sul Jobs Act potesse essere il modo giusto per aiutare le imprese a lavorare al meglio? Davvero pensavate che sostenere, invece che combattere, un partito scettico sulla riforma delle pensioni, scettico sull’euro, favorevole ai dazi, potesse aiutare il nostro paese ad affrontare con sicurezza il passaggio delicato che da qui a pochi mesi ci porterà in un’Europa non più protetta dal bazooka monetario di Draghi? E davvero pensavate che sostenere, invece che combattere, un partito che sogna di aumentare i tempi dei processi giocando con la prescrizione e che promette di ingrossare il circo mediatico-giudiziario giocando con le intercettazioni potesse aiutare il nostro paese a essere più attrattivo rispetto agli investimenti stranieri?

 

Si potrà dire, come ha ricordato ieri Silvio Berlusconi pronosticando per tale ragione una vita non troppo lunga di questo governo, che chi ha votato Lega lo ha fatto per sostenere una coalizione di centrodestra e non per promuovere una coalizione populista. L’obiezione è corretta solo nella misura in cui si voglia sfuggire però al nocciolo della questione. E cioè: davvero chi ha votato per Matteo Salvini può stupirsi se la Lega abbia scelto di sacrificare la sua alleanza con il resto del centrodestra per formare un governo con un partito come il Movimento 5 stelle che su Europa, globalizzazione, lavoro, protezionismo, nazionalismo e persino reddito di cittadinanza in campagna elettorale non ha fatto altro che ripetere le stesse parole usate da Salvini? E davvero ci si può stupire del fatto che aver creato le condizioni per premiare i partiti che considerano un tabù la flessibilità, la produttività, la competitività sta aiutando l’Italia a muoversi verso una traiettoria letale? Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel corso della tradizionale cerimonia del Ventaglio, ieri ha sintetizzato così quello che dovrebbe essere un impegno comune di una classe dirigente con la testa sulla spalle: “Contrastare tendenze alla regressione della storia”. Nella classe dirigente italiana, chi oggi con ritardo scopre nell’industria la forza del modello Marchionne (e quando trasformavate Landini in un eroe della patria dove eravate?) e chi oggi con ritardo scopre in politica la debolezza delle alternative al modello Marchionne (e quando demonizzavate la flessibilità dove eravate?) avrebbe il dovere di guardarsi allo specchio, rimboccarsi le maniche, recitare un mea culpa e cominciare a mettere in mutande i sostenitori della decrescita felice. Vale per chi si sveglia oggi e vale anche per chi, come Matteo Salvini, forse avrebbe il dovere di svegliarsi presto, prima di passare alla storia come il principale nemico degli stessi elettori che lo hanno votato.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.