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Contro i nuovi mainstream

Luigi Manconi

La guerra al politicamente corretto è stata persa quando si è affermata una mentalità ancora più scorretta e cattiva. E per di più estremamente conformista

Aleggere le parole ostili di giornalisti e commentatori verso episodi quali “le magliette rosse” o l’invito di Sandro Veronesi a “porre i propri corpi a tutela dell’attività di soccorso”, si nota immediatamente come una parte significativa della destra culturale e politica soffra di un irriducibile complesso di inferiorità nei confronti della sinistra culturale e politica, o di ciò che ne resta. L’acida grettezza e l’ordinaria ironia esercitate nei confronti dei cosiddetti radical chic rivelano uno stato di autentica sudditanza: e il fatto che, implicitamente, si continui ad attribuire alla sinistra un primato etico, contestato e sfregiato, ma che, a denti stretti, si finisce col riconoscere.

 

Il politicamente s-corretto “ha ucciso” intelligenza e umanità, fino al suo estremo e sublime esito: “E’ finita la pacchia”

L’esaltazione eroicistica del Controcorrente viene in realtà fatta da chi si trova placidamente immerso nel fluire della corrente

Intervistato dal sempre ottimo Massimo Bordin per Radio Radicale, a proposito del suo “Abbasso i tolleranti. Manuale di resistenza allo sfascismo” (Rizzoli, 2018), Claudio Cerasa si è lasciato andare a una studiata invettiva. In sintesi: “Il politicamente corretto ha ucciso la libertà di espressione. Mossi dall’idea che rispettare le diversità fosse un modo per rinunciare all’identità e accettare quella dell’altro in maniera acritica, ha portato prima all’autodistruzione della nostra identità, poi all’idea che se una cosa è mainstream allora è vera e qualsiasi alternativa a quel pensiero è da combattere”. E ancora: “E’ l’idea della società delle bolle: noi, oggi, viviamo in delle bolle e quelle bolle non permettono di comunicare l’una con l’altra, sono dei mondi a sé, dei mondi a parte”. Mi viene da dire: Tu quoque, Cerasa! E che alterazione e deformazione della realtà, santiddio! “Il politicamente corretto ha ucciso la libertà di espressione”, mavva’. Se fosse vera questa logica, e se volessi rovesciarla specularmente, potrei arrivare a dire che il politicamente s-corretto “ha ucciso” intelligenza e umanità, fino al suo estremo e sublime esito: “E’ finita la pacchia” (e il riferimento, immagino che fosse al destino di persone come quella ragazza e quel ragazzo morti abbracciati sulla nave della Marina italiana “Diciotti”, a seguito del naufragio dello scorso 13 giugno). In questo caso, il mio giudizio non sembra diverso da quello del Foglio, se ho bene inteso quanto qui scritto negli ultimi mesi: non solo a proposito della simpatica coalizione di governo Lega-5 stelle, ma anche della sorte riservata da quella stessa coalizione a migranti e profughi.

 

Facciamo un passo indietro. La lotta contro il pol.corr. si sviluppa sin dalla prima metà degli anni 80, a partire dal presupposto che esso fosse egemone e imperante: frutto estremo e velenoso del cosiddetto Sessantotto. E riconosco che, in effetti, una certa prepotenza della correttezza politica e linguistica avesse trovato spazio presso alcune minoranze residenti in quelle che Cerasa definisce “bolle” e in cui si articola la nostra vita sociale. Ma, in ogni caso, di minoranze si trattava e tuttora si tratta (per giunta, oggi più esili e sfiatate). La spiegazione dell’equivoco può rintracciarsi in un singolare paradosso. Tu, voi – i Cerasa e i Ferrara e, peraltro, io, ma in un habitat appena un po’ più in là – vivevate proprio in una di quelle “bolle”, ne condividevate l’esistenza conventicolare e, infine, non ne avete più sopportato il clima asfittico. Liberandovene, avete pensato che quella bolla, quel clima, quel linguaggio, corrispondessero al senso comune del mondo intero. E avete deciso di dar battaglia, senza rendervi conto che nel mondo intero ben altra mentalità tendeva a prevalere, e da lungo tempo. Una mentalità politicamente scorrettissima e cattivissima. E così, mentre ingaggiavate fiere scaramucce e ardimentose guerricciole contro il buonismo e il relativismo, si affermava senza incontrare resistenze un vocabolario che, per dire pane al pane e vino al vino, finiva col compiacersi gaudente nel chiamare froci i froci e negri i negri. E, allora, tanto per fare gli spiritosi e riderci un po’ su, perché non chiamare Lo Sciancato l’allenatore dell’Uruguay, Oscar Tabarez aggrappato alla sua stampella? E, se questa è la tendenza irresistibile del momento, chi e quando dovrà e vorrà fissare un limite? Una delle conseguenze di questo prolasso della mente e delle parole è l’autocommiserazione di chi – mentre combatte intrepidamente il pol.corr. – pensa che tutti gli diano del “razzista” (o del “fascista” o del “nazista”) e ne gode lacrimosamente: si arrampica su una etichetta che gli appare terribilista e, dunque, gratificante (razzista!), mai attribuitagli, in realtà, non avvedendosi che – al massimo – gli si dà del coglione. E’ una tendenza al vittimismo piagnone che si manifesta in forme diverse. Qualche settimana fa, un giornalista scriveva che quando gli accade di parlare della famiglia tradizionale, fatta da un uomo e da una donna, si sente guardato male e addirittura “minacciato”. E ha descritto il ministro della Famiglia, Lorenzo Fontana, come il bersaglio di un “linciaggio mediatico quotidiano”. Ecco, chi rappresenta in questi termini il conflitto politico-culturale in corso nel paese, crede davvero che i sostenitori della famiglia tradizionale – magari titolari dei più potenti ministeri – siano le vittime sacrificali di una vera e propria persecuzione, di un rastrellamento morale, di un pogrom realizzato dai sicari del pol. corr. Cascano le braccia. Ricordo solo che, per dirne una, tutti i miei parenti (decine e decine di persone) condividono quella stessa concezione tradizionale della famiglia, fatta da un uomo e da una donna, senza per questo sentirsi in alcun modo guardati male e tanto meno minacciati. Ma se quello è il quadro che viene esposto al pubblico, non ci si può stupire che tristi figuri arrivino ad affermare la necessità di “affondare le ong”. Ne discende così un lessico che – in un mondo ritenuto narcotizzato dal pol.corr. – pretende di essere anticonformista. Molto, ma molto anticonformista. E, infatti, in una certa area culturale si considera decisamente brillante e – attenzione – assai irriverente declinare in tante varianti il seguente quesito: “E perché non si può dire negro?”. A porlo con maggiore frequenza, quell’interrogativo, è un asse umorale che va da Vittorio Feltri sulle colonne di Libero a Giuseppe Cruciani sulle frequenze di Radio24 (“La Zanzara”).

 

Una delle conseguenze di questo prolasso della mente e delle parole è l’autocommiserazione di chi pensa che tutti gli diano del “razzista”

Si rimane sbigottiti nello scoprire che qualcuno ritenga tuttora efficace utilizzare come improperio la formula “radical chic”

Feltri è un vero cultore della materia, che si esprime a tutto campo. Esemplare un articolo pubblicato su Libero del 10 giugno scorso a proposito di omosessualità. Egli, come ci tiene a precisare, “non ha nulla contro i gay” anzi, si trova “in sintonia con i froci, perché spesso sono dotati di una sensibilità quasi femminile che riconosco anche in me stesso”. Sottolinea, tuttavia, che non tradirebbe mai “la patata cui giurai devozione eterna”. L’articolo è lungo e complesso e non si limita a questa dichiarazione, per così dire, di poetica amorosa. Il testo è, per molti versi, interessante e intelligente e lo si leggerebbe con piacere se si riuscisse a scansare l’incalzante vocabolario di sinonimi da collegio militare. Eccone un florilegio: frocio, signorino, gay, busone, ricchione, culattone, finocchio. L’autore è soddisfatto di sé: “Sono riuscito a inserire (…) parole vietate” e “basta questo a fare di me un sovversivo”. Ma no, Feltri, ma quali parole vietate: sono le più diffuse nel discorso pubblico e in quello domestico, nelle televisioni e nelle canzoni, nelle scuole e negli uffici, nelle librerie e nei cessi pubblici. Altro che sovversione! E’ la manifestazione più pigra del conformismo della lingua e della mente. Le parole utilizzate da Feltri, dunque, non sortiscono l’effetto dell’antico grido: “Il re è nudo”. Non suonano come l’annuncio di uno scandalo, bensì come la micidiale filastrocca di quell’adorabile frugoletto che ripete: “Cacca, piscio, cacca, piscio”. E, tuttavia, quella domanda (“Si può dire negro? E frocio?”) si propone come una manifestazione di anticonformismo. Ecco, questo è un punto importante. E qui vale la pena affrontare un discorso per me – esagero un po’ – doloroso. Patisco una dipendenza ormai patologica dal già citato programma radiofonico “La Zanzara”. Giuro che è proprio così. Nella versione del tardo pomeriggio o, più spesso, nella replica notturna, trovo l’occasione per ingaglioffirmi. Dunque, tutto ciò che viene detto a proposito di quella trasmissione lo ritengo poco pertinente. La sua scurrilità, la sua trucida efferatezza, la sua oltraggiosa e stracciacula impudenza, sono – come ovvio – un motivo di perversa attrazione per un moralista come me. Dunque, una occasione per inabissarmi nella stercorara grevità di quel racconto e dei suoi “mostri”: dalla logorrea epatica di Mauro da Mantova all’autoerotismo puberale del fasciosovietista Diego Fusaro (avete notato che parla come Carletto Dapporto?). Il tutto si sviluppa su un robustissimo impianto illiberale, sovrastato da una concezione fosca delle relazioni sociali e da un’idea antigarantista e autoritaria del diritto e del sistema delle pene. Ciò contribuisce a trasformare quello che una volta era un connotato di ribalda trasgressione in una sorta di consumismo della sociopatologia.Tutte le devianze del comportamento e tutti i disturbi della personalità, tutti i tic e le fissazioni delle sub-ideologie, non trovano solo ospitalità ne “La Zanzara” – il che è, come dire, normale – ma vengono enfatizzati, esaltati, ritualizzati. Una volta era il grottesco a salvare tutto ciò, a renderlo letteratura di genere e piccante sbrodolatura scatologica: oggi il dispositivo comico non è più quello dell’ironia intenzionale, bensì quello della comicità involontaria. Chi vorrebbe guidare la macchina della beffa, ne risulta vittima. Così che Cruciani e Parenzo andati per gabbare, finiscono gabbati. A ciò si aggiunga che l’intero flusso verbale della trasmissione, così come le pagine del giornale di Feltri, sono attraversati da una petulante presunzione anti-convenzionale e da un’ostentata pretesa di eterodossia. In altre parole, l’esaltazione eroicistica del Controcorrente e del Fuori dal coro viene fatta da chi si trova placidamente immerso nel confortevole abbraccio del lento fluire della corrente (che, poi, a me, perversamente, piacciano ancora “La Zanzara” e la lettura di alcuni quotidiani reazionari è tutt’altro discorso e va affrontato col mio psicoanalista). Capisco che tanta attenzione rivolta a piccoli episodi del costume culturale nazionale, come quelli citati, possa apparire pretestuosa. Ma il fatto è che essi rappresentano il concentrato e il precitato di tanti vizi e vezzi. Un ulteriore esempio. Si rimane sbigottiti nello scoprire che qualcuno ritenga tuttora efficace (e magari “caustico”, se non addirittura “urticante”) utilizzare come improperio la formula “radical chic”. L’articolo di Tom Wolfe che inventa l’espressione è del 1970, mentre il “Falò delle vanità” è del 1987. E lì Wolfe (sempre “caustico” e “urticante”) aggredisce i vizi della nuova borghesia in cui sembra rispecchiarsi una parte di quella stessa cultura reazionaria che attacca stancamente i radical chic (ma vaglielo a spiegare). Analoga sorte è quella del termine “buonismo”, che sembra addirittura riprendere nuovo vigore e raccogliere crescenti successi. Certo, a ricorrervi sono gli stessi che, con sublime sprezzo del pericolo, dicono e scrivono “ci metto la faccia”, “puri e duri”,“è nel nostro dna”, “senza se e senza ma”, “cattocomunista”, “casta” e, nei momenti più neri, usano il “piuttosto” in un senso semplicemente oltraggioso per la lingua italiana e con un significato esattamente opposto a quello corretto. Ma un minimo di creatività e un’oncia fantasia, proprio proprio non vi scappa neanche per sbaglio? Al confronto con le spiritosaggini di oggi, il Candido della fine degli anni Settanta, diretto dal fascistissimo Giorgio Pisanò, costituisce un magistrale esempio di letteratura comica.

 

P.s. Posso parlare perfino “per fatto personale”. Generalmente, e quando necessario, mi definisco “cieco”: e tuttavia avverto nell’eufemismo “non vedente” la traccia di un certo maggiore rispetto verso una condizione come la mia. O meglio: di una maggiore sollecitudine. E’ possibile che sia una impressione, eppure è così. Tuttavia continuo a dirmi cieco, pur nutrendo il sospetto che la mia indifferenza verso locuzioni meno esplicite discenda anche dai privilegi di cui godo e che meno mi fanno avvertire il peso dell’handicap. In ogni caso, trovo stupido che, per motivare il ricorso a termini come “checca” o “negro” si citino i film americani dove “tra loro, quelli si chiamano proprio così”. Tra loro, appunto: nel senso che tra uguali il connotato denigratorio di quelle definizioni risulta attenuato, se non amichevolmente azzerato. Infine, si consideri il diritto – prerogativa fondamentale della persona – all’identità, e anche e non secondariamente, il diritto a decidere del proprio nome (e delle definizioni di sé). Come è evidente, infatti, quella decisione è intimamente correlata a qualsiasi processo di emancipazione e a qualunque conquista di autodeterminazione.

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