L'urgenza della lingua di fuoco
Senza una nuova energia spirituale, combinata con l’ironia, il sarcasmo e la prosa di una società secolarizzata, senza fuoco linguistico il mugugno di stato lo terremo per un tempo troppo lungo. Cosa manca per ribellarsi al nuovo animus nazionale
Quello che serve è “la lingua di fuoco”. Provo a spiegarmi. Questo governo non è un governo. Certo, è un esecutivo fondato su una coalizione parlamentare di maggioranza, ma esprime qualcosa di più, è un fenomeno e il riflesso di un fenomeno. Le radici della svolta del 4 marzo scorso sono italiane e mondiali. Il conflitto sulla società aperta, concetto forse vago e confuso, ma chiaro alla luce del suo opposto, la società chiusa, il risentimento contro un minimo di speranza, la brutalità di una rottura percepita come necessaria, o inevitabile, contro la buona continuità con le cose migliori prodotte dalla tumultuosa uscita dal ferrigno Novecento, questo conflitto che ha nome Trump, Brexit, Putin e si configura come un attacco all’Europa occidentale nella sua disperante ma immane battaglia per preservare criteri di pace, di scambio, di prosperità e buona modernità, è qualcosa di diverso da una successione di fatti politici, dei quali il nuovo governo italiano è l’ultimo in ordine di tempo e forse il più terribilmente significativo.
Il linguaggio che adoperiamo per contrastare il fenomeno, che non è il Maligno ma ha una brutta faccia demagogica, plebiscitaria, vetero nazionalista, è quello usuale, consueto alle vecchie abitudini politiche. In parte è logico che sia così. I governi si giudicano e diventano oggetto di controversia e di piattaforme alternative sulla base dei decreti che approntano, delle leggi di stabilità, degli effetti economici e sociali, dei comportamenti istituzionali, delle dichiarazioni dei ministri eccetera. Il direttore di questo giornale dice che, come nel caso dei vaccini, sì o no, bisogna semplificare e prendere posizione, e ha ragione. Ma c’è un problema in più. La lingua della politica cosiddetta politicante, detto senza moralismi, il codice professionale che si conosce, arriva fino a un limite oltre il quale, specie nel caso di un evento che nasce nella rivoluzione dell’opinionismo digitale impazzito, non ce la fa a procedere. Se ci opponiamo solo a quel modo a ministri e leader che sono effetto, e in parte causa, di una ventata di pregiudizio e di marasma irrazionale, non se ne esce, almeno per adesso, e ogni ottimismo è precluso. Va’ a spiegare che con il precariato e il fermo alle grandi opere o all’acciaio si aboliscono lavoro, occasioni, sviluppo: il termine “dignità” o il drappo rosso dell’ambientalismo ti sistemano subito; va’ a spiegare che i vitalizi sono un problema ridicolo in rapporto al “no” opposto al referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari o alla realizzazione delle promesse di risanamento disattese perfino rispetto alle pretese dei demagoghi antiparlamentari, una anche stanca ripetizione della filastrocca sui poteri forti e le élite contro il diritto alla trasparenza e all’onestà del popolo ti sistema subito; va’ a segnalare che alligna la rivolta dei mercati e degli investitori contro un debitore che non si preoccupa della propria solvibilità, c’è il mito di Soros o di una cattiva strega residente a Bruxelles in agguato, e per la possibile crisi d’autunno è pronta una piattaforma di rilancio della rottura anche in vista delle elezioni europee della primavera 2019.
Vabbè, bisogna fare anche questo, ma non basta. Penso che la buona gente italiana e brava, cosiddetta, che mostra un’attitudine malmostosa in maggioranza, e non sopporta né i tecnicismi della buona politica e razionale né i precetti perbene della vecchia concezione di sinistra dell’opposizione tra progressisti e reazionari (i conservatori sono decisamente di lato), può risvegliarsi come comunità meno permeabile alle sparate dei demagoghi nazionalpopulisti se le si offrano buone prediche, e uso non a caso un termine religioso che fu assunto da quel grande retore del liberalismo che fu Luigi Einaudi (“Prediche inutili” è il titolo di una sua raccolta di saggi). Oggi forse, digitali o di strada, le prediche sono l’unica cosa utile di cui abbiamo bisogno, se sia vero che in ballo non c’è solo una alternativa a una maggioranza parlamentare qualsiasi ma il contrasto a un animus nazionale e mondiale che porta tempesta e tristezza. Combinazioni politiciste euroforbite valgono quel che valgono, poco o punto, ma è urgente trasmettere con l’immaginazione creatrice e la foga della giustizia il disprezzo per quella premessa di ostilità, se non di guerra, che sono certe concezioni del banditismo tariffario, delle frontiere impenetrabili, della disumanità egualmente putrida della caccia o del respingimento dello straniero, secondo canoni cristiani e antica saggezza pagana alla stessa stregua, e usare toni non apocalittici ma disvelatori nel figurare come il declassamento di una parte del ceto medio e popolare può solo incancrenirsi quando si adottino le procedure anticrescita di una società autarchica e respingente.
Nathaniel Hawthorne con la “Lettera scarlatta” scrisse a metà dell’Ottocento il racconto mistico di una comunità affetta da triste conformismo, i puritani del Seicento nella Nuova Inghilterra. E’ uno dei tre quattro libri di quel secolo così generoso nell’arte del romanzo. Al centro del racconto sta il grande peccatore e redentore, il pastore Dimmesdale. Parlando dei confratelli del pastore, Hawthorne scrive (pagina 146 della edizione Bur del 1983): “A tutti questi mancava il dono che discende sugli apostoli eletti il giorno della Pentecoste sotto forma di una lingua di fuoco, che simbolizza non la capacità di parlare dialetti stranieri e sconosciuti, ma quella di rivolgersi all’umanità con il linguaggio del cuore. Questi confratelli, pur così degni, non avevano ricevuto dal Cielo il dono più raro: la lingua di fuoco”. Facciamo tutta la tara che volete, ma senza una nuova energia spirituale, combinata con l’ironia, il sarcasmo e la prosa di una società secolarizzata, senza questo fuoco linguistico il mugugno sociale e di stato ce lo terremo per un tempo forse troppo lungo.