Salvarsi dalla “consensite”
E’ la malattia mortale della democrazia, ma si può sconfiggere. Sfidare i nuovi governanti sul loro terreno è inutile, bisogna ribaltare il lessico politico con la verità
La “consensite” non è inguaribile. Ma va presa per quello che è: una malattia grave della democrazia italiana, giunta al suo picco epidemico come mai era accaduto nella storia repubblicana. La prima cosa da fare è scongiurare il suo subdolo contagio, per il quale le vittime, credendo di proteggersi dal virus, finiscono per fare proprie le tossine di questo. I selfie del ministro dell’Interno e i fischi, amplificati dal portavoce di Palazzo Chigi, ai funerali di Genova non si sfidano con una esibizione uguale nel metodo, sebbene contraria nel merito. La strategia del contro-tweet è perdente in partenza. Di fronte alla comunicazione di Lega e Cinque stelle, che il senatore del Pd Stefano Esposito definisce “una macchina da guerra spaventosa”, non serve “un nuovo modo di comunicare”, ma un nuovo modo di essere. Facile a dirsi, più difficile a farsi. Ma è l’unica strada, ancorché lunga e impervia, da percorrere.
I fischi di Genova? La coincidenza tra scelte di Palazzo e umori di piazza segna un ribaltamento tra mezzi e fini dell’azione politica senza precedenti
Per prima cosa occorre una diagnosi esatta, e soprattutto completa, di ciò che sta accadendo. Che non si limiti all’individuazione dei sintomi. Ma cerchi le cause della malattia, e soprattutto le sue conseguenze. Non basta rilevare che il consenso sia ormai la cifra politica del tutto, la misura percettiva di ogni manifestazione del pensiero, il tratto comune che ispira e segna i primi tre mesi di governo giallo-verde, e che offre un’unica chiave di lettura alle azioni diverse dei nuovi leader: dalla richiesta di impeachment del capo dello Stato alla chiusura dei porti, dalla sconfessione del trattato commerciale con il Canada allo stop alle grandi opere, dalla frenata sul rilancio dell’Ilva fino alla revoca della concessione ad Autostrade. Occorre comprendere che questa coincidenza tra scelte di Palazzo e umori di piazza segna un ribaltamento, inedito nelle proporzioni, tra mezzi e fini dell’azione politica, che si risolve nella subordinazione, fino all’annientamento, dei secondi ad opera dei primi. Tutto ciò che a Palazzo si pensa e si dice – ma, vista la velocità con cui ciò accade, sarebbe meglio dire “si dice… e si pensa” – è puro mezzo, tattica, non più in relazione con qualsivoglia fine, inteso come idea di paese e progetto politico. Anche quando i leader invocano il contratto di governo quale ragione legittimante e finalistica delle loro azioni, mascherano la prevalenza di un tatticismo ancorato a una strenua difesa del consenso. Sia perché il richiamato contratto non ha alcuna idea di paese, somigliando piuttosto alla giustapposizione di singole misure e rimedi connessi a rivendicazioni e interessi di minoranze organizzate. Sia perché la prospettiva elettorale permanente, sottesa a questa postura politica, ha un obiettivo preciso, anch’esso di natura tattica: eternare la contrapposizione giocata sul passato, in cui a Palazzo c’erano i “nemici”, eludendo e ritardando le prime verifiche sul presente e sull’azione dei nuovi governanti. Per prendere tempo e continuare a scaricare sugli avversari la carica di rabbia, invidia sociale e paura, prodotte nel corpo elettorale da almeno dieci anni di demagogia populista.
La revoca della concessione autostradale in questo senso è un capolavoro di ipocrisia istituzionale: non risponde a una valutazione ponderata tra benefici morali e materiali da una parte e costi dall’altra. E’ piuttosto una scommessa, una puntata d’azzardo sul tavolo della comunicazione, per spostare il faro del dibattito pubblico dalle responsabilità e dalle contraddizioni del presente – come il rozzo no dei Cinque stelle alla Gronda che avrebbe dovuto sostituire il ponte crollato a Genova – e indirizzarlo sugli errori del passato – come l’esito di privatizzazioni difettose che, anziché promuovere la concorrenza, hanno prodotto improbabili monopoli.
Un patto per riformare un paese invecchiato male. Senza promettere redistribuzioni di ricchezza che non si possono garantire
Può anche darsi che la mossa della revoca si riveli alla fine vincente. Che, come suggerisce il giurista Guido Alpa, maestro del premier Giuseppe Conte, le colpe gravi di Autostrade sottraggano il governo, e quindi i cittadini, al pagamento di una penale di 20 miliardi. Può darsi, ma ci sia consentito di dubitare, che la statalizzazione della rete autostradale o il suo riaffidamento a privati con concessioni meno onerose e più vantaggiose per l’interesse pubblico sia un’impresa a saldo attivo per il paese, e soprattutto alla portata di questo governo e della maggioranza che lo sostiene. Ma in ogni caso è “elettorale” il motivo, non visibile ma decisivo, per cui la revoca è stata intuitivamente gettata sul tavolo da Di Maio e da Salvini, poi timidamente congelata da quest’ultimo, e infine riproposta e difesa a spada tratta da tutto l’esecutivo. L’ovazione ricevuta ai funerali di Stato dai nuovi inquilini del Palazzo e i fischi ai rappresentanti del Pd confermano – nello schema di ragionamento delle nuove leadership – la validità della scelta assunta. In questo senso può dirsi che Salvini e Di Maio giochino una doppia competizione: la prima è esterna, diretta contro i governanti di ieri, la seconda è interna, diretta a contendersi il primato della piazza.
La “consensite” è inarrivabile, in quanto rappresenta la cifra esclusiva della loro stessa identità. Per comprenderlo appieno basta leggere il retroscena di Alessandro Trocino sul Corriere della Sera di domenica: “L’ha visto il selfie di Salvini ai funerali? – chiede un esponente pentastellato al cronista – Può non piacere, ma alla fine si parla sempre di lui, riesce a oscurare gli altri e a occupare tutto lo spazio. Per questo siamo preoccupati e stiamo lavorando a qualcosa di nuovo, a un provvedimento che riporti l’attenzione su di noi”.
Questa confessione a mezza voce spiega da sola lo smarrimento e la perdita di direzione a cui è ridotta oggi la politica in Italia. Ma anche la sua irraggiungibile spregiudicatezza e alla sua velocità. Di fronte alle quali qualunque tentativo di contrapposizione giocato sulla comunicazione, per aggressiva che questa sia, oltre a essere perdente smaschera la drammatica continuità tra il populismo strisciante dell’ultimo quarto di secolo e quello rivendicato ed esibito dai nuovi vincitori. Dovrebbero comprenderlo gli esponenti del Pd che in queste ore litigano stupidamente con Salvini, addebitandogli il voto favorevole sulla proroga della concessione ad Autostrade, ribattezzata “salva-Benetton” dopo la tragedia, finendo così per assumere in toto il lessico e lo schema argomentativo dei populisti.
Negli ultimi anni riformisti e liberali hanno avuto timore di essere scavalcati dal cinico tatticismo dei mutanti grillini e dei nuovi leghisti
Sfidare i nuovi inquilini di Palazzo Chigi sul loro terreno è come somministrare un vaccino a un organismo già ammalato. Cioè affidarsi a un virus depotenziato contro un virus attivo. Sarà un caso, ma in questa stagione i vaccini non se la passano bene. Fuor di battuta, è esattamente ciò che è accaduto negli ultimi anni, per il timore dei riformisti e dei liberali di essere scavalcati, ora a destra ora a sinistra, dal cinico tatticismo dei mutanti grillini e dei nuovi leghisti. Per spezzare questa spirale emulativa occorre sottrarsi alla “consensite” e ai suoi schemi, e investire proprio nei suoi punti di debolezza. Se il virus spezza la delega in nome di una democrazia di piazza governata mediaticamente, è dalla delega che si deve ripartire. Per ricostruire tutte le forme, oggi disintermediate, della rappresentanza. Contro i propalatori di suggestioni falsificatrici non serve assoldare implementatori di fake-news uguali e contrarie, ma piuttosto rimettere al centro del dibattito nazionale il tema dell’opinione pubblica e della sua protezione.
Non è un caso che, mentre Salvini monopolizzava le pagine dei quotidiani, i microfoni dei talk show e gli spazi della rete, alzando muri inconcludenti sul Mediterraneo, il Parlamento europeo ha bocciato nell’indifferenza degli organi d’informazione e dell’opinione pubblica una direttiva che vincolava le grandi centrali internettiane al riconoscimento del diritto d’autore. Cioè imponeva il pagamento dei contenuti che Google oggi aggrega con i suoi algoritmi, lucrando parassitariamente sul mercato editoriale globale. L’impatto mediatico delle due questioni è stato inversamente proporzionale alla loro rilevanza sul futuro delle democrazie europee. E’ passata la tesi, propalata dai populisti, che il diritto d’autore era un bavaglio alla libertà di espressione, e nessuno è riuscito a far capire che invece era un freno al furto dei contenuti, alla violazione della privacy, alla precarizzazione del lavoro, al degrado dell’opinione pubblica e al condizionamento delle libere elezioni. E’ prevalsa altresí la vulgata, di marca salviniana, che gli italiani chiedono atti concreti come la lotta agli sprechi e la sicurezza, e non “certe inutili battaglie di principio”. Così anche le forze d’opposizione hanno desistito dall’idea di ribaltare l’agenda del dibattito pubblico, trovando più comodo duellare con il ministro dell’Interno sul Mediterraneo, isolando la democrazia italiana in una ridotta securitaria, anziché rimetterla in connessione con l’Europa. Dove invece si deciderà il suo destino.
Occorre far leva sulla più evidente contraddizione della “consensite”: la sua contrarietà all’interesse nazionale
La debolezza dell’opposizione e la sua pigrizia intellettuale rinunciano a far leva sulla più evidente contraddizione della “consensite”: la sua contrarietà all’interesse nazionale, il cedimento di quest’ultimo a passioni rivendicative e risarcitorie destinate a tradire le attese, o comunque a subordinare il vantaggio pubblico alla soddisfazione di microinteressi di parte. Questa contraddizione, non debitamente segnalata, è presente in tutte le mosse del governo giallo-verde, dalla sua ambiguità sul futuro dell’Europa ai protezionismi che ispirano le prime misure economiche e quelle annunciate. Sfidare il populismo vuol dire anzitutto rieducare gli italiani a considerare l’interesse nazionale per quello che è: un vantaggio indiretto dell’intera comunità, non ristretto dal sovranismo allo spazio e al tempo angusto del presente, ma proiettato nel futuro delle generazioni e non riducibile a un dividendo immediato per l’appetito di minoranze organizzate. Significa intestarsi una battaglia per rilanciare l’economia italiana risanando insieme i suoi conti pubblici in una prospettiva di realismo, puntare a una crescita a cui corrisponda insieme un recupero del capitale umano e dell’attrattività del sistema paese, promuovere un trasferimento di responsabilità generazionale tra padri e figli, ridurre il divario economico e civile tra Nord e Sud. Ma per raggiungere questi obiettivi la politica deve ribaltare il suo rapporto con il consenso: ai cittadini deve chiedere per ottenere, con un lessico della verità, in nome di un patto per riformare un paese invecchiato male. Non promettere improbabili redistribuzioni di ricchezza che non può garantire. E deve soprattutto ridefinire il rapporto della società con la globalizzazione e l’innovazione, dei diritti con i doveri, del mercato con lo Stato, della protezione sociale con il cambiamento.
C’è ancora, in Italia e in Europa, una sfida con la modernità che può sottrarre la politica allo schiaffo del populismo. Ma richiede un pensiero e un coraggio che ancora non si vedono.