Ponte Morandi e Ilva hanno in comune una cosa: lo stato gangster
Il metodo con l'acciaieria e Autostrade è puntare la pistola per poi trattare. Ma intanto gli investitori scappano
Roma. La tragedia del crollo del ponte Morandi a Genova e la lunga crisi industriale dell’Ilva di Taranto sono due problemi molto diversi, ma che mostrano alcune linee comuni di azione del governo nei confronti delle controparti, Autostrade e ArcelorMittal. La strategia dell’esecutivo gialloverde si compone di tre elementi: si apre una trattativa con l’interlocutore, parallelamente si usa come leva contrattuale l’annullamento del contratto (la concessione o la gara di appalto) e contemporaneamente si invoca l’intervento sostitutivo di Cassa depositi e prestiti per rendere la minaccia più credibile.
Rispetto all’offerta di Atlantia di 500 milioni per ricostruire il ponte e risarcire le vittime ad esempio il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha detto al Corriere che “la somma stanziata è ben modesta rispetto agli utili conseguiti negli anni, potrebbero quadruplicarla o quintuplicarla” e che in ogni caso il risarcimento non influirà sulla “avviata procedura di caducazione della concessione”. Ieri poi è filtrata sui giornali l’ipotesi di un intervento di Cassa depositi e prestiti o di un suo ingresso nel capitale di Atlantia per “controllare” i Benetton. Molto probabilmente nessuna delle due iniziative andrà fino in fondo. Perché è molto difficile che il governo riesca ad uscire dal lungo contenzioso con Autostrade senza pagare un sostanzioso indennizzo e perché è altamente improbabile che Cdp per forza finanziaria e regole interne sostituisca o commissari Atlantia. Ma l’importante per il governo è che questa sua pressione – già causa di molti danni per una società quotata come Atlantia, che infatti ha già annunciato la “la valutazione degli effetti delle continue esternazioni e della diffusione di notizie sulla società” – porti la controparte a cedere quanto più possibile.
La stessa dinamica è stata vista all’opera nella vertenza Ilva: il ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio da un lato tratta con ArcelorMittal sul piano ambientale e sui livelli occupazionali e dall’altro accusa il colosso indiano di aver vinto una gara truccata, quindi di essere illegittimamente seduto a quel tavolo. E contemporaneamente, come per Atlantia, si fa filtrare l’ipotesi di un ingresso di Cdp (che tra l’altro faceva parte della cordata concorrente e perdente). Poche settimane fa, Di Maio annunciava l’avvio di una procedura di annullamento della gara e chiedeva a riguardo un parere all’Avvocatura dello stato: “Mi auguro che tutto sia in regola, se non dovesse essere così porto tutte le carte in procura”, diceva. Ora diverse fonti affermano che il parere sia arrivato da qualche giorno sulla scrivania di Di Maio e che secondo l’Avvocatura non ci sarebbero gli estremi per l’annullamento della gara.
E’ probabile che il governo sia ben consapevole che non ci sono gli estremi per togliere le autostrade ai Benetton e l’Ilva ad ArcelorMittal e che la sua strategia negoziale muscolare, inaugurata a livello internazionale da Donald Trump e già applicata da Matteo Salvini sui migranti, sia finalizzata a strappare condizioni migliori. Questo atteggiamento funziona bene politicamente, perché riscuote i tanti consensi di chi vuole un governo disposto a tutto per piegare i “poteri forti” e i grandi gruppi industriali, e magari sarà anche efficace nelle singole trattative. C’è però un problema con questo modo di fare intimidatorio: se metti la pistola sul tavolo forse induci chi ti è seduto di fronte ad accettare la tua offerta, ma convinci tutti gli altri che guardano la scena che non conviene sedersi con te per fare affari. Questi spettatori sono gli investitori esteri, che hanno iniziato a vendere i titoli italiani (38 miliardi a giugno) per spostare i loro capitali su altri tavoli, dove non ci sono pistole puntate.