La rabbia e l'imbroglio
I funerali di stato sui social. Nessuno su Facebook chiede la verità, si ama soprattutto ascoltare se stessi
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Al nostro arrivo ai bagni di San Michele di Pagana dove siamo cresciuti e che ora sono stabilmente occupati da russi e mediorientali in vacanza, attirati dal luogo riparato e un po’ impervio come, negli anni della costruzione del ponte Morandi, lo era il commendator Angelo Rizzoli che vi teneva banco in accappatoio bianco con le fanciulle povere ma belle del cinema italiano svolazzanti attorno (non si era ancora ai tempi del #metoo), troveremo ad accoglierci un cartello: “A causa del crollo sul ponte che collega sulla A10 la città di Genova con l’aeroporto, si rende assolutamente indispensabile partire con almeno 3 ore di anticipo sul check in”. Le vacanze di chi va in vacanza proseguono, con qualche intoppo che viene arginato nel linguaggio del buon senso più banale e, dunque, mostruoso. La strada per giungere in riviera, scendendo dal lago Maggiore e dunque dalla bretella A26 Gravellona Toce-Genova che venne realizzata fra la fine degli anni Settanta e la metà dei Novanta per mere ragioni politiche e che nessuno ha ancora finito di benedire a partire dai Borromeo che hanno potuto trasformare le loro isole un tempo elitarie in una destinazione pop, un’ora di auto da Milano e sei già a goderti il ciclopico cipresso del Kashmir prediletto anche dalla regina Elisabetta, è stata ovviamente più lunga e molto imbarazzata. Cancellato dal tragitto il passo del Turchino con le sue gole verdissime e intatte; si è tornati verso Milano transitando poi dalla A7, uscita Serravalle Scrivia, fino a Genova Est, per poi imboccare la A12 Genova-Livorno. Lo si è fatto con gli automatismi della memoria, senza inserire il navigatore, che del crollo di pochi giorni prima sa ovviamente nulla. L’intelligenza di certi sistemi è molto limitata, e adesso ci porterebbe verso un mondo che non esiste più, cambiato a loro insaputa. Noi, con le nostre piccole sacche da viaggio, stiamo invece tentando di adeguarci.
Il richiamo della tastiera, l’insopprimibile voglia di prevalere e la sensazione di poterlo fare, solo a volercisi mettere
Sabato 18 agosto, ore 11 del mattino. Per attenuare il senso di colpa di volersi godere il mare a dispetto della tragedia (“non abbandonateci, siamo aperti”, scrivono i liguri sulle insegne piazzate un po’ ovunque, ma la coscienza rimorde anche per la curiosità morbosa di voltarsi a guardare verso destra una volta arrivati allo svincolo) la radio e il cellulare sono sintonizzati sui funerali di stato che, pochi chilometri più in là, si stanno svolgendo in memoria delle vittime che non hanno preferito esequie private e che vogliono essere risarciti almeno in questo, nella pubblica cerimonia del dolore. Il governo schierato intende sfoggiare innocenza e ingrossare la voce in virtù di quel lasso temporale limitato dal suo insediamento, due mesi e mezzo appena, come se le carte dei rilievi e delle verifiche effettuate sulla stabilità del ponte non fossero già pronte a smentirlo, due giorni dopo. Ma siamo ancora a due giorni prima, e il funerale è una grande occasione per il paese tutto di dimostrare di essere dentro al cambiamento. O di esserne fuori. Lontani da quel palco della Fiera da cui arrivano gli echi. E’ una Giornata particolare, per quello che si prova, ma anche per ciò che si ascolta, nell’eco e nelle immagini, e sarà tutto un affannarsi fra distinguo e prove di dominio dell’acustica e del linguaggio dei segni fra chi c’era, chi assisteva in tv e chi passava dieci chilometri sopra, sull’autostrada A12, affrontando ogni viadotto con un singulto, per un patetico e impossibile riflesso pavloviano.
“Aspetta aspetta, sento degli applausi. Non riusciamo a vedere per chi siano”, dice la collega del Tg1 in diretta allo studio mentre anche lei si volta, allunga il collo come lo spettatore, per vedere che cosa stia succedendo, chi stia prendendosi gli applausi, chi i fischi e perché, mentre il riflesso del sole rende impossibile capire anche a noi, che siamo già a Recco e ascoltiamo. Il giorno dopo, nel thread dei contatti facebook, quel filo che per vocali e consonanti ci porta da nessuna parte, una terza collega dirà che si trattava della claque dei due vicepremier, “giusto all’ingresso, perché più della metà delle persone non ha applaudito” e si beccherà gli insulti di uno che nel suo filo passava forse per caso, che forse vi era rimasto impigliato ma che quasi certamente per questo aveva deciso di rispondere per le rime, anzi per maiuscole, perché all’invettiva fosse aggiunta l’offesa visiva, il grandangolo grafico; perché alle minacce e alle promesse del governo, al selfie fin troppo spiegato di Matteo Salvini, alle dichiarazioni roboanti di Luigi Di Maio e al contrappunto timido degli inviati televisivi, facesse da contraltare la propria rilevanza, il proprio egocentrico mostrar di muscoli almeno via social, un simbolico infilarsi gli stivali e calcarsi in testa il fez da cui, ohibò, manca però il pon pon, che “m’han fregato sabato”, ma guai a pronunciarlo così, con quell’orrendo francesismo, che almeno lo si italianizzi, che si dica “pon pono”.
Un’altra “giornata particolare”: staremo a casa a ballare la rumba con i passi segnati sul pavimento, senza sentirci “disfattisti”
Viaggiare sulla A12 e sentirsi parte di una storia diversa, come Antonietta Tiberi e Gabriele, frastornati la prima dalla propria inconsapevolezza, il secondo dalla propria diversità, intellettuale e politica e umana. Una Giornata particolare con la voglia di reagire, di certo, perché “quando si è scoraggiati bisogna trovare la forza di reagire, se no... non c'è niente da fare e sei fregato”, ma forse non subito. Non più a caldo, non più dentro questo thread mortale, questo filo delle Parche che Mark Zuckerberg ci invita di continuo a svolgere e a riannodare con nuovi aggiornamenti e nuovi servizi, soprattutto noi europei, ormai i meno attivi, o forse i più scafati. Se il titolo ha perso il 25 per cento in Borsa dopo la presentazione dell’ultima trimestrale, un mese fa, è per causa nostra: mentre crescono iscrizioni e attività da parte degli utenti indiani e filippini, noi europei abbandoniamo.
Ci stiamo stancando di cliccare e copiare perché ci si aprano nuovi thread per “vedere post di persone che non vedo da anni”, senza per questo arrivare neanche un centimetro più vicino alla verità, alzando però i toni con chiunque. Dite a Cesare quel che è di Cesare. Anzi, ditelo più forte. Il richiamo della tastiera, l’insopprimibile voglia di prevalere e la sensazione di poterlo fare, solo a volercisi mettere. “Voi avete dalla vostra solo il congiuntivo corretto”, ci è stato appena rimproverato mentre osservavamo che, in uno stato di diritto, lo stato non possa sopraffare la giustizia e i suoi modi, semmai agire istituzionalmente perché riveda i propri tempi. Ci hanno inchiodati alla consecutio, al latinorum di Azzeccagarbugli. L’equiparazione fra ignoranza e onestà è faccenda pericolosa, sintomo cattivo anche senza dover evocare i fantasmi di Pol Pot, anche volendosi fermare al cinismo di Alessandro Manzoni. Eppure, i semi sono stati gettati ancora una volta (“diminuiscono gli iscritti alle università, bene”, esultava sui social qualche anno fa Gianluigi Paragone) e aver terminato gli studi o, peggio ancora, continuare a studiare, si è trasformato in una colpa da espiare, insieme, magari e en passant, con il giardino con vista. Mai come durante questa estate lo si è trovato pieno di spazzatura. La gente si ferma apposta nello spiazzo. Tira il freno, butta la carta straccia e le bottiglie vuote, tiè stronzi con la vista, la pagherete.
Attorno ai social, alla mistificazione che riescono a guidare e alla rabbia che riescono a eccitare si è alzata un’aria spessa, pesante; una nebbia come nella pellicola che Ettore Scola volle decolorare perché l’impressione fosse quella: una coltre che avvolgeva uomini e cose, pesante, negli anni del fascismo. Decolorò tutto: i costumi disegnati da Enrico Sabbatini, che vennero fatti bollire perché acquisissero la patina del tempo e dell’usura; le scene stesse, che furono girate con un filtro speciale, e infine la stampa, che venne trattata a sua volta perché lo spettatore assistesse alle azioni di una società sbiadita, opaca, pastosa e putrescente. “Abitavo in piazza Vittorio. Tutta l’epoca aveva quella tonalità”, raccontò Scola. “Un non colore neanche tanto grigio ma un po' chiuso, un po' spesso, come quello di una nebbia dentro le stanze. Un leggero simbolismo, anche se io i simboli li amo poco, di chiusura, di prigione”. E’ la sensazione che proviamo, o che forse tanti di noi provano, non tutti certamente, dopo una lunga sessione a battagliare su Facebook (un po’ meno su Twitter, naturalmente esclusivo per la sintesi e le capacità linguistiche che richiede): la mente confusa, che rimbomba di parole inutili, di proclami a cui non vogliamo sottostare e ai quali non vogliamo rispondere, o che tanto meno vogliamo sottoscrivere. Abbiamo scritto rispondendo a che cosa? Cercando di coinvolgere chi? Con quale scopo? Nessuno, su Facebook, chiede la verità, come nel famoso tango argentino: “Il mio cuore chiede una bugia”. Si ama ascoltare se stessi, trovare conferma a quello che crediamo di sapere o di volere. Null’altro.
Gli applausi ai due vicepremier. No, solo una claque. No, e arrivano gli insulti con le maiuscole e un mostrar di muscoli via social
Leggendo la cronaca dell’occupazione del teatro Odéon di Parigi nel nuovo saggio autobiografico sul Sessantotto di Giampiero Mughini, si ha l’impressione di assistere a una versione appena più primitiva, di sicuro più eroica, di una discussione su Facebook: “Un pomeriggio”, scrive, “ho passato ore ad ascoltarli, per lo più sproloqui senza né capo né coda come negli odierni talk televisivi in cui la parola viene data alla gente, come se la gente esistesse davvero e non fosse invece un confuso aggregato in cui ciascuno apporta le proprie paure, i suoi sgorbi mentali, talvolta la sua cieca ignoranza”. Tutte le persone che contano davvero, che hanno un ruolo, su Facebook non hanno mai aperto un profilo, tanto meno personale, e si guardano bene dal buttare la propria opinione in pasto a chiunque. Niente selfie, zero pance all’aria. Lo schifano perfino i Ferragnez, consapevoli, come Oscar Wilde, che solo l’immagine conti, e che sia fondamentale girarla a proprio vantaggio nella luce migliore, che è quella artificiale. Ci siamo solo noi, a sparare nel mucchio, a issare le picche, a prenderci vagonate di insulti, a buttarla subito in chiacchiera vana e in acrimonia; noi e gli agitatori della democrazia diretta; questa sì, non il crollo del ponte di Genova, una piccola favola di cui crediamo di far parte e dalla quale finiamo regolarmente travolti, schiacciati dall’impatto della realtà come il povero Paolo Putti, il leader no-Gronda che si era affidato alle parole di tutti e principalmente alle proprie, inebriato da se stesso e dal movimento che aveva creato attorno a un no suffragato dal niente.
Le persone che contano davvero non hanno mai aperto un profilo e si guardano bene dal buttare la propria opinione in pasto a chiunque
Da anni perdiamo un’infinità di tempo che avremmo potuto impiegare altrimenti; non abbiamo guadagnato un euro o un’oncia di credibilità in più. Forse, anzi, ne abbiamo persa un po’. Preferiamo uscirne, come lo scrivano Bartleby. I would prefer not to. Preferirei di no. Grazie, di Facebook useremo, forse, solo la funzione copia-incolla degli articoli che ci interesseranno, ma lasciamo il filo; lo lasciamo alla simpatica collega della Stampa che si ostina a cercarne il capo, anzi a cercare quelli “che ragionano con la testa e con il cuore, e non con la pancia e con il culo”. Preferiamo non abboccare. Finché potremo, staremo a casa a ballare la rumba con i passi segnati sul pavimento anche se la portinaia alzerà la radio sulle note di “Giovinezza”, senza per questo sentirci dei rinunciatari anzi dei “disfattisti” e chissà perché non l’abbiamo ancora sentita, questa parola, ma state pronti perché manca poco. Saremo resilienti al cambiamento dei proclami e delle minacce a scopi di audience subito ritrattate, dei post minacciosi cancellati, dei nostri stessi post che premettono di voler cancellare immantinente chi non sarà d’accordo con noi, perché questa piazza iniziamo a non sopportarla più, perché vorremmo discutere sì, ma con gente a cui vorremmo poter portare rispetto e che ne portino anche a noi. Come Bartleby, vogliamo diventare inesplicabili. Ammantarci di mistero come lui, che rifiuta sia il poter essere sia il suo contrario, il poter non essere. Rifiutiamo la parte del pubblico plaudente che ci è stata affidata in commedia: vogliamo essere irriducibili e perturbanti. Un perfetto meccanismo di rifiuto totale, mascherato nella leggerezza elegante di chi declina un invito. “E voi ci andate mai a ballare?”. “Mai”. “E allora perché vi imparate la rumba?”. “Così”. Per leggerezza.