John McCain (foto LaPresse)

Salvare l'Europa con i McCain italiani

Claudio Cerasa

Succede quando si parla di euro, di migranti, di bilancio, di trattati, persino di ponti. Lo sciacallaggio del cambiamento può davvero sfasciare l’Europa. Che cosa può insegnare ai narcotizzati d’Italia la lezione sugli ideali di un eroe americano

Per capire cosa sta succedendo in questi giorni in Italia non è necessario seguire il filo logico di un’indagine giudiziaria, ma è sufficiente osservare il filo conduttore dell’estremismo di un governo che, ormai da mesi, in ogni suo atto, in ogni sua scelta, in ogni suo gesto, in ogni sua decisione, in ogni sua disposizione, non fa altro che ricordarci che la grande priorità dei due vicepresidenti del Consiglio – e del loro vice, ovvero il presidente del Consiglio Giuseppe Conte – coincide con una battaglia al centro della quale vi è la lenta, progressiva, inesorabile, implacabile ed esplicita demolizione del sogno europeo. Tre giorni fa, durante un comizio alla Festa della Lega di Pinzolo, in provincia di Trento, Matteo Salvini ha voluto specificare, testualmente, che “l’Europa è una schifezza che non esiste e che non merita i nostri soldi”, e la dichiarazione del vicepresidente del Consiglio della settima potenza industriale del mondo arriva nel corso di un’estate durante la quale i principali azionisti del governo del cambiamento hanno messo in campo il peggio del proprio arsenale antieuropeista – e tra un Mojito e un altro l’Europa è stata incolpata da Salvini di essere persino responsabile della caduta del ponte Morandi. Quando Salvini dice di considerare l’Europa una schifezza, il vicepremier sa che alcune cose sull’euro può farle dire solo a quei leghisti che non hanno ruoli di governo – Claudio Borghi, consigliere economico di Salvini, presidente della commissione Bilancio alla Camera, ha detto proprio al Foglio pochi giorni fa che personalmente si augura che “l’euro salti in aria”.

 

Ma allo stesso tempo il ministro dell’Interno sa bene che in fondo l’Euro può crollare anche aggredendo l’Europa attraverso il ripristino dei confini di Schengen ed è prima di tutto per questo, e per trovare alleati capaci di aiutare l’Italia a trovare un modo per essere legittimata a respingere anche in mare i migranti, che il leader della Lega ha scelto di costruire un asse con i paesi più antieuropeisti del continente (“Nella politica d’immigrazione dell’Ungheria e dell’Italia ci sono punti di convergenza”, ha affermato ieri con orgoglio il ministro degli Esteri ungherese, Peter Szijjarto, il cui paese dal 2015 a oggi ha partecipato alla ricollocazione dei migranti e dei profughi arrivati in Italia con una cifra simbolicamente significativa: zero). Dall’altra parte, invece, quando Luigi Di Maio dice di essere pronto a bloccare i venti miliardi di euro che l’Italia verserebbe ogni anno per contribuire al bilancio dell’Unione europea dimostra di non sapere nulla del bilancio dell’Unione europea (“Non sono 20 miliardi di euro l’anno: l’Italia contribuisce con 14, 15, 16 miliardi in un anno, e se si tiene in conto ciò che ottiene dal bilancio Ue il risultato è un contributo netto di 3 miliardi l’anno”, ha ricordato ieri il commissario europeo al Bilancio Ghünter Oettinger) ma allo stesso tempo dimostra di sapere che la carta del veto sul bilancio dell’Unione può essere usata per raccogliere consensi sullo stesso terreno antieuropeista dominato da Salvini.

 

Se si rifiutasse davvero di pagare parte del suo contributo, l’Italia sarebbe infatti portata di fronte alla Corte di giustizia europea e sarebbe condannata a ripagare con pesanti interessi quanto anticipato da Bruxelles. Ma se sospendesse completamente i versamenti, l’Italia farebbe qualcosa di più: farebbe scattare l’articolo 7 del Trattato di Lisbona, che è un articolo che l’Unione può attivare per garantire il rispetto dei suoi valori fondamentali quando questi vengono minacciati e il cui procedimento può portare i paesi oggetto dell’attivazione a perdere il proprio diritto di voto nelle istituzioni europee e dunque di fatto a uscire dall’Europa. I due casi sono quelli simbolicamente più rilevanti ma sono i soli, e se ci si presta un po’ di attenzione non c’è scelta e non c’è dichiarazione e non c’è affermazione che i due vicepresidenti del Consiglio facciano che non abbia come sottotesto l’idea di organizzare presto un grande vaffanculo day contro l’Europa.

 

L’antieuropeismo di Salvini e Di Maio è in fondo l’essenza più profonda del governo del cambiamento, e da qui ai prossimi mesi c’è da scommettere che quest’arma verrà utilizzata sempre più spesso dai principali volti dell’esecutivo, per diverse ragioni. Prima ragione: provare a fare il pieno di voti alle elezioni europee e trasformare così il voto della prossima primavera in un plebiscito utile a giustificare un domani anche una possibile riforma costituzionale finalizzata a istituire un referendum di indirizzo con cui chiedere un giorno ai cittadini se desiderano o no uscire dall’Unione europea prima ancora che dall’euro (nella scorsa legislatura, l’attuale vicecapogruppo della Lega alla Camera, Fabrizio Cecchetti, presentò su richiesta di Salvini una proposta di legge costituzionale per poter arrivare un giorno a offrire agli elettori il seguente quesito: “Ritenete voi che lo stato italiano debba avviare la procedura prevista dall’art. 50 del Trattato sull’Unione europea al fine di attivare la procedura di recesso volontario e unilaterale dall’Unione europea?”). Seconda ragione: provare a tenere il più possibile vicine le truppe dei due gruppi parlamentari anche nei momenti di difficoltà (su alcuni dettagli, statalismo, infrastrutture, nazionalizzazioni, Movimento 5 stelle e Lega hanno visioni diverse, ma sui temi che contano, l’euro, la collocazione internazionale, la globalizzazione, il protezionismo e soprattutto l’Europa, come ricorda bene Angelo Panebianco nell’inserto III del Foglio di oggi, Salvini e Di Maio parlano la stessa lingua). Terza ragione: trovare un alibi che possa giustificare il mancato mantenimento delle promesse elettorali (da giorni la Lega, e ieri lo ha fatto anche il presidente della commissione Bilancio al Senato Alberto Bagnai, ha ripreso a dire che un paese con la testa sulle spalle dovrebbe rinunciare alle “regolette deleterie dell’Europa”, come i parametri di Maastricht, e se la legge di Bilancio che il ministro dell’Economia dovrà presentare entro il 27 settembre in Europa ed entro il 15 ottobre alla Camere dovesse essere deludente, sarà ancora una volta l’Europa a essere individuata dalla Lega e dal M5s come la responsabile di una manovra non all’altezza della volontà del popolo). 

 

In un bellissimo ricordo del senatore John McCain pubblicato ieri sulle colonne del New York Times, il giornalista americano David Leonhardt ha celebrato l’ex candidato repubblicano alla Casa Bianca per una ragione legata non direttamente alla sua carriera, alle sue idee e al suo eroismo militare. Leonhardt ha ricordato che un grande merito recente di McCain è stato quello di “credere nella grandezza del suo paese come una realtà e non come uno slogan”, ricordando in ogni occasione possibile che “gli Stati Uniti possono svolgere un ruolo unico nel mondo, come difensore della libertà e della dignità umana” e che “il Partito repubblicano di oggi è la più grande minaccia per quel paese che McCain ha servito e amato”. In altre parole, come ha ricordato anche l’ex presidente americano Barack Obama, “McCain ha avuto la forza e il coraggio di offrire un’alternativa per non tradire gli ideali per cui generazioni di americani e immigrati hanno combattuto”, spiegando fino a quando ha potuto come Donald Trump abbia esplicitamente messo a rischio la grandezza americana. Se vogliamo, la lezione di McCain ci ricorda in modo plastico che non c’è bisogno di aspettare un’inchiesta giudiziaria per capire cosa sta succedendo anche nel nostro paese e per capire in che senso l’Italia di oggi abbia bisogno disperatamente di schierare in campo i suoi McCain per non mettere a rischio il sogno dei nostri genitori e dei nostri nonni: il sogno cioè di un’Italia che trasforma l’Europa non in un incubo ma nella più grande opportunità per i nostri figli.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.