Matteo Salvini, Giuseppe Conte, Luigi Di Maio e Giancarlo Giorgetti durante la cerimonia di insediamento. (Foto LaPresse)

Un nuovo contenitore per Lega e M5s

Valerio Valentini

Nella maggioranza sta maturando un’ipotesi pazza: la nascita di un unico fronte sovranista dopo le europee, in caso di collasso del M5s. C’è lo zampino di Giorgetti. Scenari e piani

Ad avere innescato la discussione, che s’è subito fatta un po’ convulsa, è stato, chissà quanto inconsapevolmente, Giancarlo Giorgetti. Il quale, negli incontri post ferragostani, agli amici – parlamentari e ministri, tutti leghisti – che glielo domandavano rispondeva categorico che “sì, il clima nel governo è perfetto: tra noi e i Cinque stelle l’intesa regge e si rafforza”. Il che, essendo poi subito seguiti i giorni tribolati della sceneggiata sulla Diciotti, con la minoranza interna grillina, quella vicina a Roberto Fico, in fibrillazione, deve essere sembrato a qualcuno alquanto discutibile. E allora nuove domande, nuove telefonate, nuove richieste di rassicurazioni alle quali il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, sempre più a suo agio nei panni del saggio dispensatore di verità, ha replicato in modo un po’ sibillino. Dicendo, grosso modo con queste parole, che “l’unica certezza è che se pure si dovesse arrivare alla rottura, non si tornerebbe al voto”.

 

E tanto è bastato per angosciare i suoi interlocutori, che immediatamente hanno iniziato a interrogarsi tra loro. E così, quella che fino a qualche settimana fa veniva liquidata come un’ipotesi strampalata, “da fantapolitica”, ora comincia, tra le truppe leghiste, a prendere sostanza: l’idea, cioè, di un contenitore unico – nuovo nel nome e nel simbolo, magari, ma di certo non nelle parole d’ordine – che tenga dentro il Carroccio e il M5s. O meglio, una parte del M5s. E qui, semmai, sta un po’ il dilemma che agita i discorsi dei parlamentari leghisti, specie quelli che ancora devono prendere le misure al nuovo alleato di governo: “Se si dovesse arrivare alla spaccatura tra i grillini, ad uscire dal Movimento sarebbe Di Maio oppure Fico?”.

 

Domanda sciocca, a sentirla giudicare dagli uomini vicini al ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, “ché il brand è brand, ed è la prima, fondamentale risorsa”. Come a dire, insomma, che la maggioranza che più o meno convintamente si riconosce nella leadership di Di Maio mai sarebbe disposta a rinunciare al simbolo e alla storia del M5s: semmai, che sia il presidente della Camera a farsi la sua ridotta per gruppettari che vogliono puntare al cinque per cento.

 

E però, nei discorsi estivi trasversali, c’è stato pure qualche grillino che, ai colleghi leghisti, ha prospettato l’ipotesi opposta, e cioè che Beppe Grillo prima o poi potrebbe finire col dire che il “suo” Movimento non può essere stravolto più di tanto, e che insomma darebbe la benedizione proprio a Fico. “Possibile? Tutto è possibile. Anche che domani il sole non sorga”, scherzano, quasi irridendo la domanda, nella maggioranza del M5s. “Probabile? Proprio no”, concludono. Ma nella Lega c’è già chi, nella paura di trovarsi impreparato, ha cominciato a fare i calcoli. Il peso della corrente fichiana viene considerato, al momento, di poco superiore a quello della pattuglia parlamentare di Fratelli d’Italia. Fuori i primi, entrerebbero i secondi, e magari pure i “totiani” fedeli al governatore ligure Giovanni Toti (“Sono sedici”, azzarda un computo un leghista) e almeno una decina di esponenti di Forza Italia del centro-sud, che per ora Matteo Salvini sta perfino facendo fatica a respingere, giudicando non ancora maturi i tempi.

 

Il momento della verità, comunque, arriverà con l’approssimarsi delle elezioni europee. “Per ora, fare un contenitore unico non è conveniente: restando divisi, occupiamo più spazio e prendiamo più voti”, ragiona un senatore del M5s. Marciare divisi per colpire compatti. Ma fino a quando sarà possibile? “Una nuova forza sovranista, che faccia dell’opposizione al mondialismo tecnocratico un suo elemento identitario, non è un’idea assurda, anzi”, ammette un colonnello leghista, più vicino a Giorgetti che a Salvini. E aggiunge: “Dopo avere rinunciato alla matrice settentrionalista, dopo avere accetto la rimozione della parola ‘nord’ dal simbolo, ormai nessun Rubicone per noi è invalicabile. E Matteo d’altronde ha dimostrato di essere abilissimo nel guidare transizioni anche traumatiche”.

 

Ma il punto sta proprio lì: capire quali siano le intenzioni di Salvini. “Se una possibilità di allearci c’era, da martedì è più remota”, ragiona un uomo di governo del M5s. E il riferimento è all’incontro col premier ungherese avvenuto in prefettura a Milano. “E’ chiaro che Salvini, insieme a Orbàn, ha gettato le basi del nuovo centrodestra europeo: ha iniziato la scalata al Ppe”. E i Cinque stelle? “Noi, è indubbio, al momento abbiamo un problema nel definire le nostre alleanze europee”, continua il grillino.

  

Affanno? “Macché. Se avessimo già tutte le risposte, saremmo dei grandi. E invece noi grandi dobbiamo ancora diventarlo”. Quello di cui nel M5s si dicono sicuri, è che “nel prossimo Parlamento europee noi e la Lega non siederemo nello stesso gruppo”. “Ah, così dicono?”, replicano a distanza, quasi con stupore, i colleghi leghisti. “Vedremo: ma di certo – proseguono – sarebbe difficile fare una campagna elettorale da avversari in Europa e restare compatti a Roma. E poi: ce lo vedete Salvini nelle foto di rito accanto alla Merkel?”. E insomma, se alla fine anziché lo schema prospettato dai grillini, con una Lega che entra nel Ppe e un M5s sullo schieramento opposto, dovesse avverarsi l’altro – quello, cioè, di un grande rassemblement sovranista che dichiara guerra ai vecchi partiti europeisti – allora che succede? Di fronte a questa prospettiva, anche i notabili grillini si schermiscono: “Non chiedeteci la fine del film, siamo all’inizio”. E non è contrarietà allo spoiler: è, semmai, che dove si andrà a parare, davvero bene ancora non si sa.